08 Mar Once in a lifetime: Stanley Kubrick
Il 7 marzo 1999 muore a St. Albans, nell’Hertfordshire, Stanley Kubrick, con tutta probabilità il maggiore cineasta del secolo scorso. Stanley era pura e geniale visione. Il cinema gli aveva offerto una casa, ma in realtà abitava da sempre un mondo creativo estremamente ampio e variegato, che andava dal design alla scrittura, dalla filosofia alla psicanalisi, dalla fotografia agli effetti scenici, dalla sceneggiatura alla regia. Tutto nel suo cinema era abnorme: l’impegno stacanovista, la scrittura, i temi, le soluzioni, le alchimie circolari della narrazione, le perfette architetture dell’immagine prospetticamente calate sull’umanità imperfetta che era solito raccontare. Perché il cinema di Kubrick era pura intuizione, un esemplare mix di emozione e suggestioni, di pancia e stomaco. Da buon anti-reazionario Stanley non amava la speculazione intellettuale che lasciava volentieri ai suoi critici. Diffidava dell’uomo, della morale e della diplomazia. Stanley amava piuttosto il suo lavoro al punto da diventarne schiavo. La critica lo acclamava ma lui fuggiva dalla notorietà e dal palcoscenico. Da quello che raccontano i suoi più vicini collaboratori, era decisamente ossessionato dalle cose, perennemente preoccupato dal quotidiano, tormentato dalle sue idee, da ogni loro possibile variabile su cui ostinatamente cercava di mantenere un assoluto controllo. Kubrick è stato l’ultimo grande regista di una grande stagione. Spietato e rigoroso con attori e collaboratori, era capace di tenere e girare la stessa scena per settimane, per centinaia di volte, senza concedere nessun riferimento, senza dare alcun cenno o spiegazione, impegnando magari centinaia di comparse dall’alba al tramonto, ricostruendo con maniacale attenzione i set come fossero davvero astronavi o qualche vecchio ed inquietante albergo sperso nelle nevi delle Montagne Rocciose. Stanley gestiva implacabilmente il set sino a che non ne era intimamente soddisfatto. Ecco perché le riprese dei suoi film erano un dettaglio organizzativo del tutto ipotetico e variabile, potendo durare mesi se non anni. Perché Stanley era un fottuto perfezionista innamorato di ogni sua idea e accanitamente disposto a tutto pur di difenderla dalla mediocrità, dai compromessi o dalle materiali necessità della logistica o della produzione. I suoi film erano opere titaniche la cui sola preparazione impegnava centinaia e centinaia di collaboratori. Kubrick teneva mappe accurate di tutte le stanze delle sue case e di tutte le sue cose che catalogava con cura certosina. Prima di iniziare a riprendere, provava e riprovava ogni cut, girando interi rulli di prova che mandava a sviluppare contemporaneamente in laboratori diversi: lo stesso negativo veniva stampato da macchine diverse per effettuare continuamente test incrociati. Su quella base decideva, di volta in volta, chi avrebbe stampato i giornalieri, mobilitando e tenendo quindi sulla corda anche quattro o cinque laboratori, a cui peraltro imponeva spesso condizioni rigidissime. Stanley era metodico, ossessivo e attento ad ogni più minuzioso particolare. Si occupava di tutto in prima persona, da chi doveva curava le consegne dei rushes a chi doveva dare da mangiare ai suoi amati gatti. Amava lavorare sempre con le solite persone, quelle che conosceva bene e di cui si fidava. Nonostante fosse assolutamente irremovibile nelle sue convinzioni, riusciva anche ad ascoltare i loro pareri, salvo poi fare ovviamente di testa sua. Ma, su tutto, Stanley era geloso della sua indipendenza e della sua libertà. Per quella e per la privacy della sua famiglia era pronto a sacrificare qualsiasi cosa. Non si fidava dei giornalisti, girava sempre sotto pseudonimo, abitava case e tenute invisibili e depistava regolarmente la stampa e i cronisti mettendo in piedi set esca in diversi teatri di posa. Stanley e questa sua incredibile e smisurata attenzione creativa erano il cinema nella sua più magniloquente dimensione. Se n’è andato improvvisamente nel sonno, in uno dei momenti più complicati e difficili, mentre stava per chiudere la lavorazione di “Eyes Wide Shut”, mentre cominciava a capire quanto sarebbe risultato difficile e doloroso il montaggio finale. Il vuoto che ha lasciato non è mai stato colmato. “Odio che mi si chieda di spiegare come “funziona” il film, cosa avevo in mente e così via. Dal momento che si muove su un livello “non-verbale” l’ambiguità è inevitabile. Ma è l’ambiguità di ogni arte, di un bel pezzo musicale o di un dipinto. “Spiegarli” non ha senso, ha solo un superficiale significato “culturale” buono per i critici e gli insegnanti che devono guadagnarsi da vivere.”