11 Mag Once in a lifetime: Irving Berlin
L’11 maggio 1888 nasce a Mogilev, in Bielorussia, Izrail’ Moiseevič Bejlin, in arte Irving Berlin, di professione musicista e compositore. Irving fu un piccolo grande uomo dalle mille e più vite. Tra queste, la seconda fu la più drammatica e decisiva cambiando il corso delle cose, costringendo la famiglia Bejlin e il piccolo Izrail’ di cinque anni, a sfuggire all’ira dei cosacchi rivoltosi per cercare fortuna altrove.
Il lungo viaggio per mare che ne segue deposita, non senza peripezie, i Bejlin e le loro speranze a New York. La nuova vita di Israel Bejlin comincia così, a bocca aperta e con il naso all’insù, sotto lo skyline di Manhattan tra i carretti degli affollati moli del Lower East Side e un nome nuovo di zecca, più semplice e facile, buono da scrivere e leggere, buono per sentirsi cittadino di quella nuova terra, buono per salvare la pronuncia originaria e le sue lontane radici. La terza vita non è però quella sognata dal piccolo Izzy. L’improvvisa scomparsa del padre lo costringe infatti a rimboccarsi le maniche per raggranellare i dollari necessari per sopravvivere. Irving finisce così a vendere quotidiani agli angoli delle strade, ed è proprio ai margini di quegli intrecci d’asfalto che comincia ad esibirsi. Perchè il giovane Berlin aveva un grande talento, un lascito di famiglia, qualcosa che scorreva nel sangue dei Bejlin da generazioni e generazioni. Perchè, in qualche strana maniera, Berlin e la musica si davano da tempo del tu. A creare quell’intima confidenza non era stata certo la tecnica, quanto piuttosto l’istinto e la fantasia. Irving aveva, infatti, imparato da solo a battere i tasti del pianoforte, solo quelli neri, però, che gli altri, quelli bianchi, mica aveva capito come governarli. Nonostante non avesse la minima idea di come quei grappoli di note potessero pure finire, nero su bianco, su uno spartito, il piccolo Irving cominciò a scrivere, suonare e cantare e avrebbe continuato a farlo sino alla bellezza di 101 anni, pubblicando ottocentododici canzoni che, in oltre la metà dei casi, finirono per stazionare nelle posizioni più alte delle classifiche di gradimento di tutto il mondo.
Fu così che, nel corso delle restanti e mutevoli vite, Berlin divenne, al pari di Cole Porter, George Gershwin e Hoagy Carmichael, il più giovane e famoso compositore statunitense, l’interprete più apprezzato di un sentimento autenticamente popolare, figlio del cinema, degli eroi di Hollywood e delle loro promesse di celluloide. I suoi brani e i suoi musical raccontavano gli stessi sogni della gente comune, quella che Irving incrociava al bancone di un bar o dal barbiere. Anzi, in qualche caso, come ad esempio in “White Christmas”, sono le sue composizioni ad attrezzare da zero un articolato futuro, inventando non solo uno stile accorato e contemporaneo, in bilico tra il nuovo verbo urbano del jazz, le radici europee e la coralità della tradizione, ma anche la forza e la malinconia di un universale sentimento post-moderno. I suoi brani divennero il manifesto della Nuova America, quella delle grandi opportunità ma anche delle tante differenze culturali, dell’immigrazione e dei viaggi della speranza, della libertà e, in certi frangenti, anche del rimpianto. In questo senso le canzoni di Berlin sono un compendio di integrazione sociale. Izzy dava infatti voce a tutti i sentimenti, anche e soprattutto a quelli degli ultimi arrivati, perlando un linguaggio semplice e comprensibile che sfruttava canoni comuni e stereotipi, creando così una sorta di alfabeto emotivo a cui tutti potevano indistintamente avere accesso.
Come scrissero i critici, i suoi brani non trovarono solo posto nel cuore degli americani, ma divennero la loro migliore colonna sonora. Berlin diventò in pochi anni un celebrato compositore e per decenni non vi fu anima viva che non rubasse al suo songbook le principali chiavi distintive: una melodia buona per tutte le estensioni vocali, un titolo evocativo che richiamasse ritmo e suono, un contenuto cantabile da tutti, un portato sentimentale che coinvolgesse, un’idea semplice, realistica e originale, una grande cura nell’arrangiamento delle armonie vocali e, dulcis in fundo, la possibilità di essere suonata ovunque e in ogni occasione, alle feste come nelle case, dalle orchestre come alla radio. Nonostante le ricorrenti caratteristiche dei suoi brani, la musica, per Irving, era sempre e solo una questione di brividi e registri emotivi, quella cosa che sentiva scorrere nel sangue e che aveva imparato ad avvicinare con rispetto, istinto e improvvisazione. Fu quella perfetta miscela di geniale irregolarità a trasformarlo in un richiestissimo “hit-maker”, in una sorta di illuminato alchimista della canzone, capace di far piangere e sorridere toccando sempre corde nascoste e profonde e rimpinguando le fortunate tasche di produttori discografici ed impresari. Grazie a lui la canzone diventò, per la prima volta, un prodotto diffuso e popolare, un linguaggio di massa, utile per condividere, comunicare e trasportare pulsioni, immagini e sentimenti. «Ho scritto su ciò che la gente voleva sentire. Ho incartato i loro sentimenti e glieli ho rivenduti. Mi sono messo al loro servizio.»