19 Giu Once in a lifetime: Nick Drake
Il 19 giugno 1948 nasce a Yangoon, Birmania, Nicholas Rodney Drake, musicista per vocazione e profonda passione. E’ la tarda mattina del 25 novembre 1974 a Far Leys. Mezzogiorno passato, ormai. La stanza di Nick, al primo piano della casa di famiglia a Tanworth-in-Arden, nei dintorni di Birmingham, è ancora avvolta in un silenzio discreto e attende sorniona il suo risveglio. C’è un giradischi che continua a girare. La puntina è ormai sfinita. Da ore è arrivata a fine corsa e continua ostinatamente a scivolare su quell’ultimo fatale giro di vinile, con un flebile e ritmico sobbalzo. Attende che mani pietose la liberino da quella maledizione meccanica per collocarla a riposo sul lato.
Sul piatto che gira c’è un disco. Sono i “Concerti Brandeburghesi” di Johann Sebastian Bach. Sono i Berliner Philharmoniker diretti da von Karajan. Li aveva sentiti alla Royal Albert Hall, in quell’enorme sala dai grandi lampadari, su quel gigantesco palco dove, solo quattro anni prima, era salito anche lui a fare da spalla ai Fairport Convention. Quel ricordo trasmette ancora un senso di disagio e di profonda inadeguatezza. Sul comodino un bicchiere d’acqua, una manciata di pillole e un libro, aperto ed appoggiato sul dorso, con le pagine piegate. E’ un saggio di uno scrittore molto caro. E’ “Il mito di Sisifo” di Albert Camus. Qualche sigaretta spenta, un posacenere, un taccuino con un fiume di appunti e una matita quasi senza mina. Poco altro. Tutto sembra quieto e calmo, prossimo a riprendere il naturale ritmo delle cose, il ciclo millenario di sole e stelle. Ma lì, invece, tutto è destinato a rimanere freddo e immobile. A nulla varranno i disperati tentativi di risvegliarlo e le urla disperate di sua madre Molly, a nulla porterà il pianto composto dei familiari e dei pochissimi amici che lo hanno accompagnato in quegli ultimi difficili e dolorosi mesi. Nick non si risveglierà mai più. Rimarrà per sempre nel suo sonno, abbracciato ai dubbi e ai labirinti di un’esistenza complicata e sconnessa.
La notizia della sua morte non colse nessuno di sorpresa. Né chi lo conosceva, né la stampa che assai poco si era occupata di quel ragazzo oscuro e introverso, che soffriva le interviste, che si rifiutava di esibirsi dal vivo e che non frequentava il giro giusto, la Londra vacua e stanca, celebrata dai rotocalchi, precipitata ormai nel viaggio onirico del progressive e quasi già in odore di rivoluzione. In quei primi anni settanta la morte di un giovane musicista è circostanza purtroppo frequente e non fa di per sè più notizia. Il New Musical Express dedica alla scomparsa di Nick solo quattro scarni paragrafi. Poi, per decenni, fu solo silenzio, lo stesso tragico silenzio gravido di attese e domande di quella fredda mattina di novembre. Come scrissero i biografi, fu così che “le tenebre si richiusero su di lui”.
Eppure mai artista o morte furono più influenti. Perché, per motivi diversi, ma per certi versi simili, come nel caso di Ian Curtis, il tempo si è dimostrato in seguito davvero gentiluomo con la sua fine arte, sino a leggerne pienamente la grandezza nell’estrema fragilità e nella dolce malinconia delle tracce. Drake diventò, così, diversi decenni dopo la sua scomparsa, un artista importante e frequentato, esattamente l’opposto di quello che era stato in vita. La sua riscoperta postuma era stata, in qualche modo, favorita da quella sua musica delicata. I suoi brani sembravano non avere tempo, le sue armonie e quello stile dimesso e cortese suonavano distanti e diversi da tutto quello che girava in quegli anni, risultavano unici per la potenza lirica, la brillante naturalezza e la raffinata complessità delle incredibili accordature.
Il suo songbook divenne immortale proprio per questo. Incrociava, infatti, in mari e rotte poco battute dalle derive dell’epoca. Le sue melodie, tragiche e sospese, raccontavano il travaglio emotivo di una personalità alla ricerca di un fragile e vulnerabile equilibrio, scavavano in una dimensione rurale e pastorale che chiamava in causa l’ideale romantico e i poeti dell’anima, le tensioni esistenziali e il respiro popolare, le rime simboliste e la grande scuola degli chansonnier. Tutto questo trovava in quelle piccole grandi gemme musicali un registro emotivo e confidenziale distantissimo dal mero esercizio stilistico. Le riletture di temi classici e quella sua scrittura colta e moderna, resa sempre per lucide metafore, immagini e sensazioni, componevano un registro poetico inquieto e distaccato, carico di mistero e atmosfere solide, che sotto un’apparente calma celavano a fatica un assordante frastuono.
Nick rimane un capitolo a parte nella storia, non fosse altro perché è venuto prima di tutti gli altri, di molti epigoni del contemporaneo, di cantori tragici e maledetti, di altri fragili e appassionati spiriti che hanno cercato di vestire con suoni e parole l’ordinario disagio del quotidiano. Pochissimi lo hanno compreso e aiutato, salvo magari poi tentare di riscattarne la memoria dalla sommità di un mito posticcio che tanto sapeva di affari e poco aveva a che fare con la sua reale indole, con quel modo discreto, ironico e gentile di prendere la vita, di pretendere sempre il massimo, faticando ad accettare le delusioni e i fallimenti al cui cospetto, infine, preferì il ritiro e l’isolamento. Ma quella di Nick non è la voce della sconfitta, quanto piuttosto quella della fuga dal senso del dovere e del reale, quella del rifiuto delle convenzioni e delle regole, di un futuro che non piace e che non regala niente. Perché, passano i secoli, cambiano gli stili, i mezzi espressivi, le tensioni liriche, ma i temi di fondo rimangono sempre quelli.
Nick era un ragazzo brillante e ambizioso, un talento straordinario che è rimasto schiacciato da attese e aspettative, da freddezza e cinismo, soprattutto da tanta mediocre omologazione. Così lo raccontano affettuosamente quei pochissimi amici che lo hanno discretamente accompagnato tra le brume di stagioni difficili sino a quell’ultimo fatale levarsi della nebbia in una fredda e umida mattina di un giorno qualsiasi di un fine novembre qualsiasi di quarant’anni fa. “Se le canzoni fossero versi / Di una conversazione / La situazione sarebbe perfetta”