25 Giu Once in a lifetime: Anthony Bourdain
il 25 giugno 1956 nasce a New York Anthony Bourdain, di professione cuoco e giornalista. Quello che ho sempre apprezzato delle sue avventurose esplorazioni geo-gastroculinarie è l’attitudine di fondo. Perché nelle sue periodiche peregrinazioni nei luoghi più sperduti del globo alla ricerca di ingredienti, cibi e pietanze non vi ho mai scorto artificio o semplice mestiere, quanto, piuttosto, passione e intelligenza. In questo Bourdain è rimasto fedele a se stesso e al suo originale modo di concepire l’esistenza e la cucina, in maniera, cioè, cordialmente scorretta, spregiudicata, irregolare e del tutto curiosa. A differenza di molti e più titolati colleghi, Anthony si è trattenuto dall’invadere l’infido terreno dell’entertainment televisivo, quello stesso che ha derubricato la nobile arte del cucinare a rango di innocente passatempo serale, trasformando una congerie di onesti mestieranti in ideologi rampanti o maitre-a-penser della filosofia cuciniera.
La spettacolarizzazione mediatica del bucatino con la pajata fa mestamente riflettere. Quello che i media e i talent show hanno infatti riservato all’arte della buona tavola ricalca, purtroppo, lo stesso schema con cui hanno espropriato la musica popolare della sua anima creativa, che, spesso e volentieri, matura ben lontana da accademie e scuole del bel canto. Come, in quel caso, si è privilegiato il virtuosismo dell’interpretazione al contenuto creativo e alla tensione culturale, così, allo stesso modo, si è lasciato che la cucina diventasse ostaggio di rocambolesche acrobazie tecniciste. Quell’inviolabile perimetro di talento, riti e regole si è abbandonato ad una grottesca farsa proto-agonistica, dove la perizia del taglio della zucchina finisce drammaticamente per contare più della stessa, dell’idea di cibo e della fondamentale sensazione di piacere e benessere che la abita.
Per nostra fortuna Bourdain non si è lasciato fregare dalle luci della ribalta e si è tenuto lontano da questa contagiosa deriva, privilegiando, invece, un approccio culturale e antropologico. Anthony ha continuato ad andare a caccia di sapori, fragranze e infinite ricchezze territoriali senza preclusioni o stucchevoli manierismi, accomodandosi sulle panche malridotte dei baracchini unti di Bogotà come nelle asettiche sale di design dei ristoranti più cool dell’East End londinese. Nelle sue divertenti scorribande, in un continuum di metropoli e campagne, periferie e sobborghi, tra amici e anfitrioni locali, piatti in via di estinzione e presidi di qualità, Bourdain ci ha regalato un’idea del mondo partecipata e responsabile, inclusiva e libertaria, contraddittoria e singolare. Attraverso il cibo ha provato a raccontare il lento incedere dell’esistenza e il suo eccentrico rotolare, senza retoriche o belletti, prediligendo un punto di vista popolare, discreto e cortese.
Bourdain è rimasto quel giovane promettente cuoco del tutto disallineato, che frequentava la tradizione come l’innovazione più radicale, che cucinava bouillabaisse integraliste al suono del primo album dei Ramones alimentando una cucina autentica e poco estetica, antica per radici ma moderna per vocazione. Nei suoi racconti ci ha affidato la durezza di un mestiere che asciuga energie e passione e che si muove alla luce di neon incerti lungo notti piccole e stanche. La sua prospettiva non conduce ad un’arena di insulti e giudizi. Quella che trascorre davanti ai fornelli è solo un’attività artigiana che richiede tempo, creatività, abilità e tanta fatica, che talvolta regala soddisfazioni, amicizia e rispetto, coltivate tra colleghi facendo l’alba in compagnia di un grasso hot dog generosamente innaffiato da birra e patatine. Perché poi il cibo ha senso solo se consumato collettivamente e in buona compagnia.
La cosa più straordinaria della cucina di Bourdain è proprio questa dimensione autentica e poetica, vividamente descritta nel suo primo libro “Kitchen Confidential”, un’incredibile spaccato dell’ordinaria follia di questo straordinario mestiere e un’incalzante cronaca di quanto possa essere dura, spietata ma anche appassionatamente ribelle la vita nelle cucine dei più esclusivi ristoranti della Grande Mela, alla faccia di tutti gli impresentabili chef nostrani che cingono d’assedio un sempre più smarrito audience televisivo.
“Una omelette o la sai fare o non la sai fare. Tagliare una cipolla, usare un tegame, tenere il passo con gli altri cuochi, rifare in continuazione, alla perfezione, i piatti che devono essere fatti, sono tutte cose che o sai fare o non sai fare. Nessuna credenziale, nessuna cazzata, nessuna bella frase o nessuna supplica cambierà le cose. La cucina è l’ultimo baluardo della meritocrazia, un mondo di assoluti”