02 Ott Once in a lifetime: Omar Sivori
Il 2 ottobre 1935 nasce a San Nicolás de los Arroyos, a 200 km da Buenos Aires, in Argentina, Enrique Omar Sivori, di professione calciatore. Omar non era solo il suo perfido piede sinistro. A dire il vero, non era nemmeno il destro, che usava solo per correre e tenersi in equilibrio. Come raccontano i difensori che lo affrontavano, Omar, quando scendeva in campo, era, anche e soprattutto, pugni, mani e braccia. Sivori è stato un giocatore inimitabile: tanto simpatico, amabile e pronto alla battuta fuori dal campo, quanto selvaggio, brutale, cinico e provocatore al fischio d’inizio di ogni partita.
El Cabezon.
Sivori era figlio di italiani d’argentina. Al calcio ci era arrivato in età scolare, militando nelle fila del Teatro Municipal. Le sue singolari giocate, degne di un giocoliere, ne fanno l’oggetto del desiderio di molte squadre locali. A spuntarla è una squadra della capitale, non una delle tante però. A sceglierlo, infatti, è l’università della bola, il River Plate, quello della leggendaria “Maquina” degli anni quaranta, di Labruna, Pedernera e Loustau, la stessa che aveva fatto da casa anche al grande Di Stefano. Quel ragazzino esile, piccolo e terribile che fa impazzire i difensori si fa riconoscere non solo per l’estrema agilità ma anche per quell’enorme e ingestibile casco di capelli che si porta in giro per il campo. E’ così che Omar diventa per tutti El Cabezón, anche se poi quel soprannome gli rimarrà appiccicato non solo per una mera vicenda tricotica. Perché Omar, quando scendeva in campo, perdeva ogni ragionevolezza e diventava davvero un ostinato testone, uno dalla cabeza dura come il marmo. Nel River si era fatto largo a suon di gol. Con Maschio e Angelillo aveva composto un terribile trio. Li chiamavano gli “angeli dalla faccia sporca” perchè sembravano usciti da qualche strada laterale di Balvanera, perché giocavano divinamente bene e perchè, talvolta, sapevano recitare anche meglio. Era un trio inquieto, straordinario e rissoso, difficile da contenere. In compagnia di Maschio e Angelillo, con la maglia del River Sivori conquista titoli e coppe a ripetizione sbaragliando la concorrenza dei cugini del Boca Juniors. Poi, nel 1957, arrivò il momento di attraversare l’Atlantico. Lo attendeva l’Italia.
Impossibile da marcare.
Quando arriva da queste parti Omar ha solo 21 anni. Alla Juventus lo aveva raccomandato un’altra vecchia conoscenza d’oltre oceano, un’altro celebre italiano d’Argentina. Renato Cesarini racconta le sue imprese e fantastica dei suoi gol, ma sorvola quasi del tutto sui proverbiali e improvvisi scatti d’ira. Renato insiste per l’ingaggio. Il club di Torino spende la bellezza di 10 milioni di pesos per il suo cartellino. E’ una discreta somma. I bianconeri compongono così un trio diabolico che imperverserà nelle aree avversarie per tutto il decennio successivo. Con Boniperti, John Charles e Sivori la Juventus vince tre scudetti e altrettante coppe nazionali. Nel 1960 vince anche la classifica dei cannonieri. Poi arriveranno la maglia azzurra della Nazionale e, quindi, il Napoli di Lauro e Pesaola. La sua carriera prosegue tra gol deliziose, polemiche roventi, espulsioni epocali e duelli verbali all’arma bianca. Fino alla fine Sivori rimarrà un giocatore ingestibile e quasi impossibile da marcare. Uno spettacolo.
Sangue e arena, zucchero e cicuta.
Al primo incerto rotolio della sfera, Sivori cadeva infatti preda di sè stesso, lasciandosi andare al più cieco, determinato e insensato furore agonistico. Sivori era sangue e arena, zucchero e cicuta. Sfidava il mondo, i giornalisti, gli allenatori, i presidenti e, ovviamente, quel povero disgraziato del terzino avversario che, oltre a tentare stoicamente di resistere, per novanta interminabili minuti, al solito compendio di tocchi, magie e giochi di prestigio, oltre a sorbirsi le urla disumane e gli improperi della sua panchina, rimediava, pure, qualche bel calcione sugli stinchi, ovviamente a gioco fermo o comunque ben prima che il pallone arrivasse da quelle parti. Giusto per stabilire chi avrebbe comandato, giusto per far capire che lui, Omar, non aveva paura di niente e nessuno. Al suo cospetto un elegante maestro del dribbling come Lusito Suarez avrebbe rischiato di fare la figura di un cortese dilettante.
Tunnel, finte, meline, scherzi, veroniche e serpentine.
Omar il pallone non lo passava mai. Era di fatto il prototipo della punta egoista, quella che i gol sono buoni solo è lui a farli. La palla era la sua croce e la sua delizia. Sivori era l’unico calciatore a portare i calzettoni abbassati sulle scarpe e quel messaggio iconico doveva essere ben chiaro a chiunque nello stadio, anche all’arbitro, con cui finiva per consumare regolarmente accese dispute e infinite querelle che culminavano poi con il cartellino rosso a sventolare davanti alla sua smorfia spavalda e minacciosa. Perchè lui, da solo, era lo spettacolo, il “calcio”. Un calcio cinico e insinuante, fatto di tunnel, finte, meline, scherzi, serpentine, veroniche, tocchi irridenti, pallonetti, ri-tunnel e, ovviamente, di gol.
Furbizia e prodezze.
Quello di Sivori era l’esatto contrario del gioco di squadra, del collettivo. Nel suo calcio c’era spazio per la furbizia dei tocchi e per le prodezze. Poco altro. Al massimo, per la subdola e gratuita provocazione lanciata al pubblico avversario, per il tenore artistico delle sue giocate, per l’eterna sfida al prossimo e per la presa in giro più malandrina e irriverente. Omar amava il fallo plateale (in 12 anni di carriera Sivori ha scontato qualcosa come 33 giornate di squalifica), la soluzione acrobatica e il tocco risolutore, meglio se cinico, velenoso o assestato sulla linea di porta, dopo aver seminato mezza squadra avversaria e il portiere, dopo averli “scherzati” e attesi con consumata cattiveria. “El Cabezon” era un asso straordinario, un talento assoluto, geniale e fantasioso, destinato, nella vita come nel calcio, a lasciare sempre il segno, a suo modo, alla sua maniera, alla sua andatura lenta e rilassata. Perchè, poi, Sivori, in carriera, non ha mai corso. Correre per lui era un gravissimo difetto. «È la palla che deve correre», diceva ai giornalisti inquadrando la telecamera con quegli occhi furbi e penetranti, “guardi che il genio deve stare nei piedi, mica nei polmoni.”