13 Gen Once in a lifetime: Johnny Cash at Folsom Prison
Il 13 gennaio 1968 fu un giorno memorabile nella storia della musica, perché quel pallido sabato mattina Johnny Cash, June Carter, Carl Perkins e i Tennessee Three varcarono le porte del carcere di massima sicurezza di Folsom, a Sacramento, in California, per incidere un album epocale.
Un nuovo inizio
A quell’epoca attraversare i cancelli di un istituto penitenziario con una chitarra in mano non era questione di poco conto. Servivano coraggio, ostinazione e una buona dose d’incoscienza, tutte qualità che certo non difettavano al grande Cash. John Ray stava attraversando una fase difficile, complessa e spigolosa. La sua carriera sembrava essere arrivata al capolinea ad aveva un fottuto bisogno di stimoli. Veniva da stagioni faticose in cui aveva portato tutto il peso scomodo di quell’improvvisa notorietà. Johnny si era perso. Sin lì aveva trovato la forza di affrontare il palco e la vita solo grazie alle anfetamine. Quella vita randagia lo aveva spinto tra strade e vicoli consegnandolo nelle braccia di alcol e stupefacenti. Aveva provato a rincorrere le ombre del passato nel tentativo di dare pace al peso dei rimorsi e della propria coscienza. Sembrava all’improvviso che tutto avesse perso importanza, perché tutto stava ormai scivolandogli sopra, le cose belle e quelle meno, i dolori e gli applausi in un’infinita girandola di eccessi, vuoti e pieni. Cash era alla ricerca di un nuovo inizio. Stava scavando in se stesso e voleva recuperare tutte le sue più profonde ragioni ammaestrando i fantasmi e riprendendosi una vita trascorsa a caccia di effimeri sollievi.
La prigione di Folsom
Cash si guardò alle spalle, perchè davanti a lui non vedeva più nulla. Pensò allora al peccato e alla redenzione, alla colpa e all’espiazione. Pensò a tutte le vite sbagliate che aveva incrociato e frequentato e che sentiva ben più vicine e intime di quel mondo finto che lo applaudiva dalle comode sedie delle grandi sale da concerto. Fu così che gli venne in mente Folsom e il suo amico, il pastore Floyd Gresset. Inizialmente la Columbia non volle nemmeno discutere di quella folle e strampalata idea opponendosi strenuamente al progetto. Ci furono diversi incontri, volarono parole grosse, minacce e contratti. Ma Johnny non era certo una persona che si lasciava impressionate da prove muscolari. Tutt’altro. Seppe così trovare, alla sua ruvida maniera, gli argomenti decisivi. La Columbia si rassegnò. Quello di Folsom fu il primo concerto ad essere tenuto all’interno delle alte mura di un penitenziario di massima sicurezza. Con il carcere Cash, il ribelle, il fuorilegge che cantava per i più deboli, aveva sviluppato da sempre un rapporto speciale, sin da quando, molti anni prima, aveva visto un film diretto da Crane Wilbur, “Inside the walls of Folsom Prison”, un vivido affresco sulla dura vita dietro le sbarre condita da un ricco catalogo di risse, disordini, quotidiane sopraffazioni e brutali omicidi. Fu una specie d’illuminazione. Ne venne fuori l’epocale singolo “Folsom Prison Blues”, un’incredibile murder ballad che suona ancora oggi come il più amaro omaggio alla dura vita del carcerato. I taglienti versi, come il celebre passaggio “I shot a man in Reno just to watch him die”, divennero un autentico manifesto. Ma la sua era poco più di una metafora, un modo per raccontare le sbarre e le costrizioni di ogni giorno. “Le prison song sono popolari”, raccontava a tal riguardo, “perché in un modo o nell’altro, che ne siamo coscienti o meno, tutti quanti viviamo in prigione”.
Completo nero d’ordinanza e un bicchiere d’acqua torbida in mano
Quel giorno Johnny si presentò ai cancelli di Folsom, tra la tensione delle guardie e lo stupore dei reclusi, in compagnia di June Carter, dei fidi Tennessee Three e di un curioso Carl Perkins. Aveva discusso con l’etichetta ottenendo infine che si sarebbe registrato un disco dal vivo. Sarebbe stata una cosa unica, avrebbe inciso ciò che ne sarebbe uscito. “Era il posto giusto in cui registrare un album dal vivo, non avevo mai sentito una reazione simile alle mie canzoni”, confessò in seguito. Avrebbe tenuto due distinti concerti, uno alle 9 e mezza di mattina, l’altro alle 12 e mezza. Salì sul piccolo palco della sala mensa numero 2 con il suo completo nero d’ordinanza, il solito ghigno spietato e un bicchiere d’acqua stretto nella mano in un clima che si andava surriscaldando di secondo in secondo. Mentre la band stava tenendo da due minuti la battuta iniziale di “Folsom Prison Blues”, entrò deciso al cospetto di un muro di mille e più mani alzate che cercavano di farsi spazio tra una folta schiera di guardie. Si avvicinò al microfono piegando di traverso il volto, come faceva spesso, dall’alto di quel suo sprezzante atteggiamento di sfida e si presentò nel modo più duro e spiccio. “Hello, I’m Johnny Cash”, ringhiò giusto per cominciare. “Devo farvi i complimenti per essere gente veramente dura e sopportare tutto questo”, continuò. Quindi, fissando negli occhi i dirigenti dell’istituto, scagliò in terra con rabbia il bicchiere ripieno d’acqua torbida e si abbandonò al fragore più assordante urlando: “E allora questa è per il vostro direttore!”
Un classico dei classici
“At Folsom Prison” divenne un classico, uno dei dischi più celebri di tutta la storia del rock. Vendette più di tre milioni di copie ed entrò nelle case di tutti gli americani. Ma Cash non andò a Folsom a fare la comparsa. Non vi andò per una festa o una mera operazione discografica, tant’è che non vi eseguì nessuno dei suoi successi. Non suonò nemmeno “Walk The Line” o “Ring Of Fire”. Quello che varca la soglia della prigione è un Cash sofferente che cerca la cura raccontando il distacco, la solitudine, il dolore e la malinconia perchè proprio quelle sono le storie che interessano a lui e a quello speciale pubblico. E pochi istanti prima di salire sul palco, Johnny infila in scaletta anche “Greystone Chapel”, un brano scritto da uno dei detenuti. Johnny lo vuole eseguire davanti al suo emozionato autore, perchè ha deciso che proprio quella sarà la sua maniera per esprimere vicinanza a quel mondo. Perché quello sarebbe stato il miglior modo per raccontare l’esistenza di esseri umani dimenticati. Perché Cash, “The Man In Black”, il carcere lo aveva davvero frequentato per qualche turbolenta lite di troppo, ed erano state esperienze dure e istruttive da cui era uscito cambiato, perchè lì aveva trovato se stesso, perchè aveva scoperto che quello era un luogo di dolore ma anche di speranza, di tristezza ma anche di grandi valori, di solidarietà, energia e redenzione. Perché a Folsom ci era già andato ad incontrare i detenuti e lì sarebbe tornato per discutere con loro di quelle condizioni. Perché, per qualche strana ragione, Folsom aveva sempre fatto parte della sua straordinaria e avventurosa vita. “A Folsom mi trovavo nel mio ambiente naturale, come uno scarafaggio nella stanza di un motel. Mi ha sempre fatto ridere il fatto che a fare crescere la mia credibilità d’artista, al punto tale che la ABC abbia pensato di propormi di condurre uno show settimanale in televisione, sia stato quel concerto in cui io e i prigionieri ci siamo trovati uno accanto all’altro, outsider, ribelli e fuorilegge”.