16 Gen Once in a lifetime: Arturo Toscanini
Il 16 gennaio 1957 muore a New York Arturo Toscanini, di professione musicista e direttore d’orchestra. Esistono, in queste nostre piccole vite governate dal caos, alcuni momenti chiave da cui scaturiscono traiettorie che sembrano diverse se non addirittura opposte rispetto alla direzione intrapresa. Ripensando negli anni a questi fatidici incroci, molti maturano l’innocente e fragile idea di aver governato il cambiamento, di aver in qualche modo “chiamato” la svolta. Molto meno prosaicamente, in realtà, quella loro strada era stata imboccata da tempo, solo che in quel frangente presentava una curva più secca e cieca delle precedenti. Horace Walpone indagò con maestria quell’aerea illusione. La battezzò “serendipity” e la trasformò in un’inafferrabile e romantica attitudine al cambiamento. Quelli che lo seguirono in scia puntarono invece sulla metafisica del mistero, su premonizioni e sesto senso. Toscanini era troppo occupato dalla sua musica per badare a teorie e sensazioni. Quando arrivò in prossimità del fatale incrocio da cui si diramò il suo fortunato percorso, si convinse, infatti, che quella svolta fosse solo il frutto di una stravagante e fortunata congiunzione.
Uno strano scherzo del destino
Quello che il caso apparecchiò ad Arturo, giovanissimo talento parmense del violoncello, fu effettivamente un rocambolesco intreccio di circostanze: perché a consegnargli, suo malgrado, la bacchetta di direttore d’orchestra fu una grave emergenza di scena, frutto di un concorso di circostanze non comuni. Ma in realtà il destino del giovane Toscanini pareva tracciato già da molti anni, sin da quando serbava ricordi e memoria. Perché Arturo non era solo un bravissimo strumentista, capace di interpretazioni aderenti e rigorose, rispettose di storia e contesto. Sin dall’adolescenza Arturo aveva sviluppato una naturale capacità di governare la complessità, la melodia e gli accenti, i timbri e i tempi. Riusciva a sentire e immaginare cose che gli altri non scorgevano e materializzava arrangiamenti che attendevano solo di essere trascritti. Perché Arturo era nato per dirigere un’orchestra. Lo sapeva lui. Lo sapevano amici e colleghi. Avesse anche avuto la temeraria sfrontatezza di rivoluzionare il verso della sua esistenza, alla fine sarebbe fatalmente tornato lì, a fare compagnia a note e spartiti.
Quella sera al “Don Pedro II”
E’ il 30 giugno 1886 e al teatro “Don Pedro II” di Rio de Janeiro sta per andare in scena l’Aida, la più celebrata opera verdiana. C’è molta tensione sul palco. Il direttore d’orchestra designato, Leopoldo Miguez, ha passato le ultime ore a litigare con l’orchestra composta in massima parte da musicisti italiani. Vola qualche parola di troppo e lui si offende. Miguez è un carattere instabile e suscettibile. Non tollera il pur minimo accenno di indisciplina, nè tantomeno che qualcuno si permetta di contraddirlo prima dell’inizio di un concerto. Deve tutelare la sua dignità e decide così di consumare in pubblico la sua personale vendetta. Sale infatti sul podio solo per raccontare alla platea la decisione di abbandonare il palco. Nel trambusto, tra rumori ed applausi, a prendere in mano quella scottante bacchetta, senza alcun preavviso, è quindi il suo sostituto naturale Carlo Superti. Non è mai agevole entrare in scena senza alcun preavviso, figuriamoci poi se bisogna sostituire una celebrità locale che se n’era andata sbattendo la porta in quel modo melodrammatico. Il clima è del tutto compromesso e, al primo comprensibile accenno d’incertezza, Superti viene sommerso da una salva di fischi. Il maestro Superti non può continuare. Prova a calmare gli animi, ma dalla platea si alzano fischi che lo invitano ad andarsene. E’ il caos. Il pubblico del teatro richiama a gran voce il maestro Miguez che però ha già guadagnato l’uscita. Superti è costretto ad interrompere la rappresentazione e ad abbandonare frettolosamente la buca tra urla e fischi. I musicisti e i coristi ingaggiati dall’Italia si guardano smarriti. Fu lì, esattamente in quell’istante, che agli orchestrali più anziani ed influenti viene alla mente un’idea che, per quanto avventata, giudicano ragionevole e percorribile. Si girano all’indirizzo del giovane Arturo, che arriva da Parma come Verdi, e lo scongiurano di farsi avanti salvando quell’assurda situazione. A convincerlo impiegano solo una manciata di secondi. Spinto da forze misteriose, Toscanini appoggia a terra il violoncello e afferra così la bacchetta e il futuro in una sorta di epica investitura. Sarà un trionfo.
L’inizio di una favola
Arturo sale sul podio titubante. Si guarda attorno mentre un silenzioso stupore inizia lentamente a calare sul grande emiciclo. Con tutta probabilità, sono la sua giovane età, quello sfoggio di spavalderia e quel magnetico coraggio a stregare l’intera audience. Arturo si raccoglie in silenzio, chiude gli occhi e lo spartito, cercando di sincronizzarsi con il flusso veloce dell’adrenalina che gli scorre nelle vene e, autorevole, abbassa la bacchetta. Toscanini dirige l’Aida a memoria. Il teatro si arrende rimanendo ostaggio di un sospeso silenzio per tutta la durata della rappresentazione, salvo sciogliere alla fine la tensione in un’infinita onda di fragorosi e compiaciuti applausi. E’ l’inizio di una favola che farà di quel violoncellista diciannovenne uno dei più grandi direttori di sempre. Non fu, quindi, merito di un romantico destino, quanto piuttosto della fiducia e della prontezza di spirito dei colleghi che avevano compreso tutto il suo talento e quella sua intima vicinanza con le note dell’opera verdiana. Ma Verdi non fu il solo grande compositore a stazionare permanentemente nelle sue corde, perchè Toscanini negli anni arriverà a frequentare e interpretare magistralmente anche altri apici assoluti della classica come Beethoven, Brahms e Wagner.
Il grande rifiuto
Toscanini girò il mondo esibendosi sui più grandi palcoscenici e tornò in Italia solo allo scoppio del primo conflitto bellico per dirigere alcuni concerti nelle retrovie dell’Isonzo. Non vi rimase però a lungo perchè dovette fare i conti con il fascismo e le pressanti pretese di Hitler che lo voleva direttore a Bayreuth. Arturo rifiuta clamorosamente e ripara a New York, attendendo la liberazione, a cui peraltro volle legare indelebilmente il suo nome. Toccò infatti proprio a lui l’onore di dirigere solennemente nel 1946, sulle note amiche di Verdi e Puccini, il catartico concerto inaugurale di una Scala di Milano, ricostruita e restituita per l’occasione ai fasti del passato. Toscanini è stato la musica, ne ha incarnato l’anima più intima e nascosta, la pura essenza stilistica, lo studio rigoroso e agli accenti del compositore. Come racconta il maestro Barenboim, “Toscanini è stato un artista audace, che ha aperto le porte al repertorio contemporaneo, che ha formato le orchestre. Ma anche un uomo politicamente impegnato. Fino alla fine ha mantenuto lo slancio e il temperamento per cui era famoso, senza mai arretrare di un centimetro. Di solito invecchiando si diventa più inclini al compromesso, ma per i creativi vale il contrario: con il passar del tempo danno il meglio di sé, spendono le energie migliori.”