15 Feb Once in a lifetime: Ernest Shackleton
Il 15 febbraio 1874 nasce a Kilkea House, nella contea di Kildare, in Irlanda, Ernest Henry Shackleton, di professione esploratore. La sua è una storia di grandi imprese e grandi avventure, di acqua e ghiacci, di distese ed orizzonti: una drammatica sfida consumata sul filo di fame e stenti, tempeste e bianchi silenzi. Come i più grandi viaggiatori del passato lontano e letterario, Ernest ha solcato spazio e tempo in maniera temeraria e ostinata non solo per placare le proprie spinte interiori ma anche per onorare un patto tenendo fede alla parola data. Ecco perché la sua è un’epopea dal sapore antico, unica e straordinaria.
Il destino di un esploratore
Il giovane Shackleton, giornalista, geografo e appassionato navigatore dei Mari del Sud, partecipò a molte temerarie spedizioni antartiche. Fu, infatti, con il comandante Scott a bordo del “Discovery”, nella prima spedizione polare del 1901, e sei anni più tardi si accomodò al timone della “Nimrod” nella spedizione che stabilì il primo record di avvicinamento al Polo Sud. Shackleton e i suoi toccarono infatti gli 88° 23′ Sud, fermandosi a soli 180 chilometri dal Polo magnetico. Qualche anno più tardi le coordinate delle sconfinate lande antartiche conobbero anche la sfortunata e tragica odissea di Scott e la conquista di Amundsen. Poi, la corsa a quel nuovo mondo di ghiaccio parve arrestarsi bruscamente. I tempi stavano rapidamente cambiando e poderosi venti di guerra avevano preso a soffiare sulla Vecchia Europa. Malgrado ciò, la grande stagione delle spedizioni polari sarebbe sopravvissuta grazie all’impegno e alla determinazione di qualche spirito nobile.
Il sogno dell’attraversamento polare
Per riprendere il mare, Ernest deve fare i conti con lo scetticismo e, soprattutto, la crescente distrazione del mondo britannico preoccupato dall’escalation della delicata situazione balcanica. Ciò nonostante, riesce ancora una volta a trovare i soldi e il pieno appoggio della comunità scientifica, conquistata dalla sua idea di attraversare il continente antartico. Con un tempismo incredibile, il 14 agosto 1914, pochi giorni prima che l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Germania, il capitano Shackleton salpa da Plymouth alla volta di Grytvyken. Il progetto è quello di compiere un’ambiziosa impresa mai tentata prima, attraversare, cioè, da costa a costa l’Antartico, dal Mare di Weddell a quello di Ross. I preparativi non sono stati lunghi ma assai meticolosi. Ernest ha rilevato una vecchia baleniera, l’ha riadattata a veliero installandovi un potente motore a carbone. L'”Endurance” e il suo equipaggio, composto da 28 uomini e 70 cani, partono così alla volta dell’Antartico. La sua non sarà solo una rischiosa spedizione ma anche una leggendaria odissea, un’avventura del coraggio e della forza, una storia di uomini, ostinazione e resistenza. Perché l'”Endurance” andrà purtroppo per mesi alla deriva prima di venire stritolata dall’inaudita pressione dei ghiacci e il capitano ed i suoi uomini dovranno proseguire a piedi per migliaia di chilometri trascinandosi dietro delle pesanti scialuppe di legno che gli avrebbero salvato la vita in caso di improvviso scioglimento di quella distesa ghiacciata.
Un viaggio impossibile
Così accadde e gli uomini di Ernest si rassegnarono quindi ad affrontare un infinito viaggio nell’ignoto oceano polare. Raggiunta la sperduta e inospitale Isola Elefante, battuta da venti che soffiavano ad oltre 130 km all’ora, le condizioni di salute dell’equipaggio si fecero di giorno in giorno sempre più critiche sino al punto in cui nessuno sembrò più nelle condizioni di proseguire. Fu lì, nel momento più grave e difficile di quell’avventura, che il capitano Shackleton prese una decisione che lo catapultò nella storia. Ernest comprende che è necessario muoversi alla ricerca di soccorsi. Fa così approntare una scialuppa di appena sei metri, la “James Caird”. L’attrezza con vele e teli di fortuna, ne fa alzare i bordi, ne rafforza la chiglia per proteggersi dalle onde e, con soli cinque membri scelti dell’equipaggio, tenta la sorte. Prima di partire però assicura tutti. Tornerà a prenderli. Nessuno sarà abbandonato né rimarrà su quelle terre. Il gruppo cerca di coprire i 1400 chilometri che li separano dalla Georgia Australe e dalle loro uniche possibilità di salvezza. Shackleton attraversa lo stretto di Drake in diciassette giorni di tempesta cavalcando i temibili “Marosi di Capo Horn” ed entrando nella storia e in tutti i manuali della marineria. I calcoli dei suoi uomini si rivelano esatti e la “James Caird” approda dalla parte opposta della Georgia Australe. Terra finalmente. Il viaggio, a quel punto, sarebbe proseguito con carte e bussola alla mano. Ci sarebbero stati altri ostacoli da valicare. Così Ernest si preparò a scalare i tremila metri delle montagne del Sud e, dopo diversi giorni di fatica e passione, riuscì incredibilmente a raggiungere la piccola stazione baleniera. Il suo viaggio, però, non era ancora terminato.
La promessa mantenuta
Shackleton aveva promesso ai suoi uomini ammalati e affamati che li avrebbe salvati, che non ne avrebbe perso nemmeno uno e che sarebbe tornato a prenderli, a qualsiasi costo. Avrebbero dovuto solo resistere. Ernest mantenne la parola data. Dapprima tentò di andare a prenderli con una baleniera, la “Southern Sky”, ma in vista ormai dell’isola dovette desistere per le pessime condizioni dei ghiacci. Shackleton fece allora tappa alle Falkland da dove ripartì con un peschereccio uruguaiano che rinunciò però anch’esso a sole 20 miglia dall’isola. Nonostante le poche forze rimaste, Ernest non mollò nemmeno quella volta. Le autorità cilene gli offrirono i servigi del rimorchiatore “Yelcho”. Con la potenza dei suoi motori riuscì finalmente ad aver ragione del mare tempestoso e raggiunse infine i naufraghi. Era il 30 agosto 1916, ben ventiquattro mesi dopo la loro partenza dall’Inghilterra. Quelle incredibili peripezie divennero un fulgido esempio di determinazione e resistenza. Quel viaggio cambiò tutti i suoi protagonisti intrecciandone fatalmente i destini. L’orizzonte polare rimase inciso in quel futuro. Shakleton non indugiò a lungo, giusto il tempo di trovare un nuovo armatore, un buon pretesto e una nave decente. Ernest si imbarcò così per una nuova spedizione scientifica diretta all’Antartide. Il maltempo purtroppo non concesse tregua per tutto il viaggio e la nave dovette fare tappa a Grytviken, nella Georgia del Sud. Fu qui, quand’era comodamente alla fonda nella baia, che le condizioni del capitano peggiorarono improvvisamente. Una trombosi coronarica se lo portò via inopinatamente nella notte del 5 gennaio 1922. Il capitano morì per mare, come avrebbe sognato, come tutti i marinai sognano. Lo seppellirono lì, in quelle terre strappate al mare e ai ghiacci, nel suo ambiente naturale. Non ci furono obiezioni né troppe lacrime, perché al mare e al vento apparteneva la sua anima. “Quando ripenso a quei giorni non dubito che la Provvidenza ci abbia guidati non solo attraverso i nevai, ma anche attraverso il mare irrequieto che separa Elephant Island dal luogo del nostro approdo finale. So che durante quelle lunghe, estenuanti ore di marcia su montagne e ghiacciai senza nome, mi sembrò spesso che fossimo in quattro, e non in tre. Non ne parlai ai miei compagni, ma in seguito Worsley ebbe a dirmi: ‘Sa, capo, avevo la strana sensazione che ci fosse un altro con noi’, e Crean fece una confessione analoga. Si percepisce sempre ‘la povertà delle parole umane, la rozzezza della favella mortale’ quando si cerca di descrivere realtà intangibili.”