21 Mag Once in a lifetime: Carlo Emilio Gadda
Il 21 maggio 1973 muore a Milano Carlo Emilio Gadda, di professione ingegnere, poeta e scrittore. Al pari e forse più di altri giganti del Novecento italiano, Gadda ha rappresentato la modernità. Del linguaggio, innanzitutto, come dei formati, dei modelli e dello stile, ma anche dei contenuti, di quella metallica e intima sofferenza e dello spaesamento trasmesso da un mondo nuovo che lasciava ogni mattina senza risposte. Di lui mi ha sempre colpito l’assoluta libertà con cui ha saputo trasformare la forma del romanzo, declinandola in maniera inedita e coraggiosa, sdoganandola dalla dittatura di schemi, regole, canoni e tradizioni. Perché Gadda non allestiva trame incalzanti per catturare l’attenzione del lettore, preferendo invece lavorare sul rimbalzo interiore, sulle tracce dello spettro emotivo, sul lascito privato e intimo di un mondo fatto di idee e pensieri ma anche di bassezze, gioia e obliquità. Tra le righe dei suoi lavori i personaggi non sono gli unici a calcare la scena. Su quel palcoscenico, al fine di tutto, c’è lui, Carlo Emilio, nevrotico e ipocondriaco, geniale e obliquo, gentile e caustico, in buona compagnia dell’ostinata ed eccentrica idea di una narrazione a completa disposizione della conoscenza nel tentativo di sciogliere i nodi di inestricabili complessità.
Un balzo in avanti
Non v’è dubbio che il suo tracciato stilistico abbia rappresentato un vero e proprio balzo in avanti, una sorta di cambio di paradigma. Questa grande dinamicità, questa capacità di lavorare sulla mutevole rappresentazione del “teatro umano” e, soprattutto, questo suo permanente oscillare tra registri diversi ed opposti hanno dovuto però fare i conti con censure e critiche. Gadda ha così pagato per la sua brillante imprudenza, per quelle lettere dure e contemporanee, per quel nascondersi tra parole controverse che hanno spesso sconcertato critica e lettori, incapaci di catalogare quei tratti. Perché poi è ben difficile governare ciò che si fatica a comprendere.
Un narratore “sui generis”
Gadda rimane così un narratore “sui generis” che esce dai binari classici del gioco delle parti. La voce che nasconde tra le righe, che parla, confida, descrive, annota e commenta, rimane sempre altra, impersonale e distaccata rispetto al contesto della narrazione, e come tale del tutto libera di andare e venire tra i repentini umori e trapassi dell’anima, annodando pazientemente in un unico e fragile filo tutto l’esistente. E’ così che l'”ingegnere” si permette il lusso di mescolare trame diverse scivolando con estremo candore dal sarcasmo alla malinconia, dall’invettiva morale all’ironia, dalla commozione all’elegia.
Moderne tensioni
Tutto questo, unitamente a una moderna tensione per la contaminazione linguistica, ha fatto di lui un capitolo a parte nell’empireo delle lettere, un caso assolutamente unico rispetto a molti altri brillanti protagonisti della sua epoca. Perché, più e meglio di loro, Gadda ha saputo interpretare e racchiudere nelle sue opere lo spirito del tempo, l’indeterminatezza e la relatività, le forti passioni civili come l’analisi gravosa dei sentimenti, l’ironia della condizione umana e lo spettro intimo di ansie, angosce e speranze. La sua specialità era quella del “dipanar grovigli e matasse”, perché la realtà è sempre complicata, complessa, mutevole, molteplice. Mai semplice. Ogni evento, anche il più insignificante, viene così affidato al più ampio contesto di una perenne interazione con fattori divergenti e spiazzanti e come tale indagato con piglio scientifico, senza altro fine apparente se non quello di svelarne traiettorie e scie. Ed è questa sua arte imperfetta, questa intuizione ingegneristica delle leggi fisiche che regolano l’imperscrutabile e volubile materia umana nonché l’attenta osservazione della loro continua trasformazione a farne per sempre uno straordinario scienziato delle arti umane, un indagatore del profondo ben conscio di limiti e ristrettezze ed ormai rassegnato a “rimettere alle parole un mandato provvisorio”. Anche per questo sono convinto che la sua opera non andrebbe semplicemente letta e studiata ma più probabilmente accolta in terra come qualche rara varietà di rose antiche. Perché la sua preziosa poetica di speranze tradite meriterebbe di più. Buone radici, ad esempio, e un sole raggiante, ossigeno e brezza, acqua piovana e nuvole. Per crescere forte e servire chi arriverà dopo di noi. Per stare meglio e per prendere possesso di spazi esigui e modesti. Per prendere coscienza di cose, desideri e moventi e per smetterla una buona volta di pensare che siamo per sempre quando la vita invece ci derubrica, ogni giorno di più, al rango di inconsapevoli comparse. “Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato.”