08 Giu Once in a lifetime: Giuseppe Campari
L’8 giugno 1892 nasce a Graffignana, comune della Lodigiana, Giuseppe Campari, anima in precario equilibrio nonché pilota automobilistico. La velocità in quei primi anni del Novecento non era ancora diventata un affare sociale. Correvano tutti, nobili e meccanici, ingegneri e garzoni, donne e uomini, baritoni e banchieri. Quella smania contagiava menti e atleti, cronisti e pittori, artisti e impiegati, pensatori e politici. Si lasciavano tutti stregare dal graffio dell’aria, dall’enorme tensione del volante e da quel pedale rigido e lungo che, quando affondava la sua corsa sino in fondo, faceva urlare il motore al cielo in un vortice di ghiaia, polvere e sassi.
Un fenomeno popolare
Le corse d’auto era un fenomeno frequentato e popolare, sentito e sognato, più della nobile arte pedatoria, dell’atletica o della marcia. Perché le auto volavano sui selciati e sulle strade, sfioravano il quotidiano e sfidavano apertamente la lentezza di un mondo antico lasciando intuire la bellezza furtiva di un futuro che si preannunciava esaltante e ringhioso quanto e più del rumore che si lasciavano in scia. Quell’automobilismo d’assalto e leggendario, al di là dei suoi eroi, non sopravvisse a quella grande stagione. Si spense, al pari delle speranze, in un’Italia tradita da un benessere predicato e mai conseguito, rimanendo per decenni l’ombra di una promessa, un inganno collettivo, dolce, sopito e crudele.
Fragili eroi e grandi leggende
Ma quella stagione, tra comparse e comprimari, conobbe anche molti fragili eroi e grandi leggende. Come Borzacchini, Nuvolari, Brilli Peri, Varzi, Ferrari, Ascari e Maserati. Come anche Giuseppe Campari da Graffignana, “El Negher” per amici e avversari. A Giuseppe piaceva la vita come il bel canto, i motori, le sfide, la cucina e le strade. Era diventato collaudatore in Alfa dove si era fatto apprezzare per l’innata capacità di domare quei pesanti e instabili siluri d’acciaio. Non era l’aria che sferzava il volto, che schiacciava gli occhialoni e spingeva il berretto all’indietro quasi volesse strappare la testa dal collo. Non era nemmeno la pioggia che bruciava la pelle o il sole, che accecava e confondeva l’orizzonte. Domare quei pesanti mostri significava mangiare e sputare polvere, come e più di un manovale di un cantiere stradale. Campari, il suo soprannome, lo doveva proprio a questo. Perché quando, dopo una giornata di prove, infine scendeva dalle auto che aveva testato era ricoperto di polvere e sabbia da capo a piedi ed aveva cambiato colore. E allora si ripuliva come poteva con il suo solito fazzoletto color cremisi e si infilava in qualche osteria a cercare compagnia, a rimediare vino e agnoli per fare notte, tra belle arie e romanze.
Il respiro del melodramma
Per Campari la lirica non era soltanto una passione. Era un modo di vivere e guidare. Più del virtuosismo gli apparteneva il respiro agrodolce del melodramma, della tragedia, di quel modo leggero e inquieto di accarezzare dossi e curve, dove peraltro era solito regalare brividi, emozioni e spettacolo. Perché Giuseppe era l’unico a cui riusciva la magia, l’unico in grado di cambiare marcia in frenata senza grattare, spingendo la frizione sino alla fine del mondo per due volte in rapida sequenza, in una sorta di diabolica doppietta. Sfidava la polvere e passava leggero, volando sugli sterrati, scodando e fendendo il muro di gente che, trattenuta a stento dalla milizia, si rassegnava ad inseguirne tramortita il profilo sino a scivolare nel suo cono d’ombra. Campari era la velocità e tutto quello che le si poteva chiedere.
Un baritono prestato al volante
Giuseppe era naturalmente dotato di una forza poderosa, aveva capelli neri e un corpo ricoperto da una fitta coltre di peluria. Era un baritono prestato al volante. Si portava appresso una voce discreta, un fisico rotondo e imponente, baffi volitivi, occhi scuri e profondi e, soprattutto, un coraggio da leoni. Sposò una cantante e provò anche a salire sul palco in una notte d’opera al teatro Donizetti di Bergamo, cimentandosi nella «Traviata», il suo cavallo di battaglia. Non andò troppo bene. Campari rimediò ben pochi applausi e un ricco catalogo di fischi, perché il loggione, si sa, mica si lascia affascinare dai miti. Forse anche per questo Giuseppe divenne un asso del volante. Raccolse i suoi migliori e più esaltanti successi sul finire degli anni Venti, quando ormai si cominciava a sentire il sordo e cupo rimbombo di un destino ineluttabile. Per tre anni sbaragliò la concorrenza di Nuvolari, Mazzotti, Strazza, Bornigia, Morandi e Varzi conquistando a ripetizione due edizioni della Mille Miglia, la Coppa Acerbo e una manciata di Gran Premi, tra cui quello attesissimo di Francia per la “gioia” dei cugini transalpini.
Il tranello del destino
Campari si era così avviato ad entrare negli annali, a raccogliere i frutti della sua migliore stagione. Chissà dove sarebbe arrivato se il destino non gli avesse teso un tranello, se non lo avesse attirato nella trappola ordita da quella maledetta macchia d’olio durante il Gran Premio di Monza, nel tempio della velocità. Dopo pochi giri la Duesenberg del conte Trossi rompe il motore e inonda la pista di olio nel punto peggiore del tracciato, alla staccata della curva Sud, dove le monoposto arrivano alla massima velocità. Il macadam, reso già scivoloso per la pioggia, diventa un’impossibile lastra scivolosa. Campari guida il plotone davanti al temibile e veloce Borzacchini, il pilota che di nome fa Baconin e che ogni volta che sale sul podio imbarazza i gerarchi fascisti che lo devono premiare. Sono due compagni di scuderia, due colleghi, due anime inquiete e due strepitosi acrobati. Ma a quella velocità e in quelle condizioni precarie la bravura non serve a niente. Le due Alfa perdono aderenza, i due piloti lottano disperatamente con la gravità, poi scivolano lungo la tangente, si sfiorano e finiscono tragicamente fuori pista terminando la loro corsa nel fossato. Campari muore sul colpo, Borzacchini si spegne di lì a poco in ospedale. Nonostante le sonore proteste degli spettatori la gara continua crudele e feroce senza fermarsi, fino in fondo, come la vita e le inconsapevoli esistenze che la popolano.