19 Lug Once in a lifetime: Cormac McCarthy
Il 20 luglio 1933 nasce a Providence, Rhode Island, Cormac McCarthy, di professione scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Ogni volta che scorro i suoi libri finisco per subire il fascino di quello stile asciutto, magnetico e severo e, istintivamente, mi viene da alzare lo sguardo alla ricerca di orizzonti immaginari. Tra quelle parole, tra le rincorse acrobatiche di soggettive fitte e intricate come e più di una trama di Ellroy, si nasconde infatti il respiro polveroso dei più grandi, quello di Faulkner, di Hemingway o Fitzgerald come pure quello di Roth e DeLillo. Cormac non rincorre mode o tendenze, ma rimane orgogliosamente distante da tutto, alieno alla modernità e ad ogni tentazione, quasi come i suoi miti d’infanzia, quasi come Melville e Dostoevskij. Pur tuttavia la sua scrittura rimane estremamente aderente al mondo reale come fosse un prezioso codice di accesso a spazi e frontiere, a quegli stessi luoghi selvaggi dove cala storie semplici e scabrose, ruvide e disperate, di vita e di morte.
Rassegnazione e distacco
Cormac racconta rassegnazione e distacco declinando le tradizionali categorie di presente e passato lungo assi già battuti dalla letteratura contemporanea. Eppure la sua scrittura possiede tratti preziosi che mettono in rilievo le contraddizioni generazionali, il rapporto tra genitori e figli, la precarietà dell’esistenza, l’abbandono e la crisi. I suoi romanzi abitano così un’inquieta umanità di frontiera frequentata da persone alla ricerca di stabilità, da derelitti e da antieroi che si ritrovano, loro malgrado, a fronteggiare situazioni estremamente complesse e complicate. McCarthy gioca con schemi e percorsi narrativi, indugia, interroga e racconta le incertezze irrisolte di quelle vite, tra spirali fatali frutto del destino o delle cruciali conseguenze di scelte sbagliate o mancate. La sua penna, però, non si schiera: osserva e scruta cercando di cogliere gli aspetti più ordinari e umani dei personaggi, accomunando le traiettorie di vittime e carnefici come fossero comparse di una tragedia più ampia, come fossero chiamate in scena solo a dare un contributo ad un disegno più grande e articolato. Ecco perché nei suoi libri le situazioni più violente e feroci riescono sempre ad assumere un carattere universale. Ecco perché le circostanze più critiche non si prendono mai troppa attenzione né vanno a rubare la scena alle storie. Perché McCarthy è un fine alchimista del racconto che mescola diversi piani con tatto e originalità sino a interrogare i protagonisti, rompendo gli schemi e affidando a ciascuno una piccola grande parte di torto e di ragione.
Traiettorie lineari e spietate
Cormac, come i suoi personaggi di carta, non ha mai gradito gli infingimenti. Si è limitato a scrivere ciò che vedeva e sentiva, rimanendo all’interno di traiettorie lineari e spietate, bibliche come le trame dei suoi straordinari romanzi. Scrivere è la passione a cui ha sacrificato un’intera vita, amori, dolori e due matrimoni. McCarthy iniziò in una condizione di reale e drammatica indigenza, abitando per otto anni una stalla senza alcuna prospettiva né reddito, e, nonostante il tempo si sia poi mostrato galantuomo regalandogli fama e reddito, ha continuato a battere i tasti della sua macchina da scrivere come se fosse rimasto tra quelle scarne mura, rifiutando fieramente le luci della ribalta, gli assegni dei premi letterari, i reading e i salotti televisivi, anche perché – dice – tutto quello che aveva da dire lo ha scritto nei libri.
Una severa critica al progresso
Nei suoi racconti, nelle righe di quelli più celebri come “Suttree”, “Il guardiano del frutteto”, “Il buio fuori”, “Non è un paese per vecchi” e “La strada”, con cui ha vinto un Pulitzer, le persone raramente si salvano. Muoiono senza molta pietà, se ne vanno di colpo e tragicamente, nei modi più strani, per mano del caso o degli altri, sempre in maniera violenta, quasi mai naturalmente o per vecchiaia. A salvarsi, piuttosto, sono le loro angosce e loro pensieri, le loro emozioni e il lascito delle loro idee, l’amara constatazione di un progresso che perde significato o l’inganno di un futuro che puzza di passato, di fuoco e ceneri, di egoismi e violenze. Così i suoi personaggi diventano strumenti di libertà e lasciano sempre spazio alle storie e al contesto narrativo che assume, racconto dopo racconto, un’importanza centrale nell’eterno confronto tra le leggi spietate della natura e quelle malamente agite dagli umani.
Sopravviventi e sopravvissuti
McCarthy si occupa di sopravviventi e sopravvissuti e lo fa continuando a cambiare registri e generi, passando dal noir al western, dal thriller alla fantascienza, ma raccontando sempre la stessa frontiera, un luogo metafisico e mentale che non si ferma alle mappe ma che si immerge in profondità tra righe e parole, scivolando in una dimensione interiore ed intima che si fa strada nel buio dei suoi precari personaggi accompagnandoli dolorosamente sino sul ciglio di una scelta destinata a cambiare la loro vita. “Quello che lo aspettava non era il buio del nulla, ma un’orrida megera che sorrideva con le gengive a nudo, e non c’era nessuna madonna del desiderio o madre dell’eterno soccorso oltre la pioggia nera coi fanali contro la notte, il morbido incavo tra i seni incipriati e le fragili clavicole alabastrine sopra il velluto sontuoso delle vesti. La vecchia si dondolava come per fargli il verso. Esiste uomo tanto codardo da non preferire cadere almeno una volta piuttosto che vacillare in eterno?”