27 Nov Once in a lifetime: Jimi Hendrix
Il 27 novembre 1942 nasce a Seattle James Marshall Hendrix, di professione chitarrista e autore. Con buona pace della retorica enciclopedica, Hendrix ha davvero rappresentato per tre intensi anni e quattro straordinari dischi il futuro della musica. Non tanto per merito di un’indiscussa abilità tecnica, quanto, piuttosto, per una radicale visionarietà e per la capacità di mescolare e tenere assieme stili e linguaggi diversi, ibridando generi distanti, in perfetto equilbrio tra la nervosa inquietudine del blues e l’acida deriva psichedelica.
Un tempo galantuomo
Di tanto in tanto il tempo si è dimostrato galantuomo. Sicuramente lo è stato in quegli anni di tensione e cambiamento rivelandosi magnanimo con molti figli. Il tempo diede una mano anche a Jimi ispirando la vertigine di un turbine creativo che prese ad aumentare al crescere dei watt. Fu così che, grazie ad un amplificatore, sogni, idee, pensieri ed energie presero a correre all’impazzata. Da quelle valvole incandescenti transitarono contenuti radicali ed una nuova visione di società, alternativa e distante anni luce da regole perbeniste e pregiudizi. Per questi motivi e per merito anche delle singolari geometrie del caso, Jimi riuscì, più di tanti altri applauditi compagni di viaggio, ad infondere quei caratteri ai suoi brani facendone un’ideale colonna sonora del suo tempo. Tra molti indiscussi meriti, Hendrix ebbe anche l’incredibile fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, mettendo a frutto le sue intuizioni per prendere al volo l’onda buona, cavalcandone lo zenit ed assicurando, quindi, alle sue memorabili imprese una vastissima eco.
Tra blues e frastuono
Il giovane Hendrix era cresciuto masticando blues. Aveva imparato a dargli da mangiare e da bere nei club di quart’ordine, ammaestraendolo dal manico della sua chitarra. Jimi scoprì così un oceano enorme e sconosciuto, lo navigò, come un temerario esploratore, senza rintracciarvi limiti. Non si spaventò, tutt’altro. Lo prese per un buon segno, alla stregua di chi per mare scorge all’orizzonte un battere d’ali dopo giorni di calma piatta. Alzò le vele e guadagnò il largo senza indugi. In quel suo strano viaggio Jimi infranse ogni barriera mescolando quanto gli stava suggerendo il cuore. Fu così che nel ragionevole frastuono della sua chitarra confluirono desinenze distanti, idee musicali divergenti e attitudini non convenzionali. Hendrix comprese che quello strano tumulto sarebbe diventato modernità ed amplificò il flusso di quello che sino a lì era stato considerato solo fastidioso rumore. Con quella chitarra suonata a velocità vorticosa, saltando furiosamente scale e accordi, rivoluzionò la musica o quantomeno ciò che veniva inteso per tale.
Da radici profonde e meticcie
Jimi veniva da lontano, da radici profonde, meticcie e operose. Aveva lasciato Seattle per servire il suo paese, abbagliato da quello che stava accadendo dalle parti di New York. Fu lì, nel cuore del Village, che comprese che la sua traiettoria sarebbe stata diversa dal resto dei colleghi. Troppo strano quel suo modo di tendere le corde, troppo singolare quella sua esuberante fisicità. Attraversò l’Atlantico per andare a vedere di persona quale direzione stava prendendo l’incendio, cosa stava per accadere dalle parti di King’s Cross e di Camden. Se ne andò dagli Stati Uniti con il levare del vento e si presentò puntuale all’appuntamento con il caos. L’esperto manager Chandler lo prestò a quel mondo introducendolo alla corte dei signori del cambiamento, di Donovan, degli Yardbirds e dell’inquieto mondo del blues elettrico che già stava traslocando al lato oscuro, al cospetto di un universo dissoluto e glamour che tutti avrebbero da lì in avanti chiamato semplicemente rock. A quella musica Jimi regalò abbondanti dosi di equivoca visionarietà. Fu una sorta di tsunami, difficilmente comprensibile ai nostri giorni. Al di là dei pur rilevanti aspetti tecnici, Hendrix consegnò alla storia la libertà di un suono stordente e catartico ed una nuova e radicale frontiera. “Quello che odio è la società di oggi, con le sue relazioni di plastica e i suoi compartimenti stagni. Io rifiuto tutto questo. Nessuno mi ingabbierà mai in una scatola di plastica”
La potenza e la dignità del rumore
Fu merito suo se il rumore si guadagnò una diversa dimensione e una nuova dignità. Fu merito suo se il graffio potente delle note assunse contorni inediti, trasformando un muro di distorsioni e feedback in magmatiche costruzioni armoniche. Fu sempre merito suo se quel flusso assunse senso e significato. Tra i rimbalzi di quelle forti vibrazioni misero radici nuove coordinate sonore che si propagarono per tutti i decenni successivi sino a battezzare quelle pulsioni rumorose che, da anni a questa parte, sono il marchio distintivo delle scene “indie” e “alternative”. Qualche affezionato cronista pensò che il suo maggiore lascito sarebbe coinciso con l’incredibile virtuosismo tecnico. In realtà, a dispetto dei tristi luoghi comuni che si consumano nelle tribune circensi dei talent show televisivi, quel suo talento acrobatico risulta forse l’aspetto più datato e meno rilevante. Perché il futuro che riuscì a stringere tra le corde Jimi lo nascose per sempre tra i solchi dei suoi lavori, quattro tesori che si smarcano dalle origini, dall’umidità delle backstreets e dal mosto selvatico delle crossroads, per inventare un suono nuovo, inquieto, notturno e metropolitano. A distanza di oltre quarant’anni, la sua singolare babele stilistica continua a stupire per il lucido rifiuto delle regole e l’obliqua ricerca di un punto di convergenza tra la frontiera di Miles Davis, l’urlo di Muddy Waters e le complesse geometrie di Handel e Bach. Così Pete Townshend raccontò uno dei suoi concerti: “Andare a vedere lo spettacolo di Hendrix fu l’esperienza più psichedelica che abbia mai avuto. Quando iniziò a suonare, qualcosa cambiò: cambiarono i colori, tutto cambiò. Cambiò il suono.”