06 Feb Once in a lifetime: Silvio D’Arzo
Il 6 febbraio 1920 nasce a Reggio nell’Emilia Ezio Comparoni, in arte Silvio D’Arzo, di professione maestro elementare e scrittore. La sua storia, le chiare lettere e la fulminea parabola costituiscono uno dei più affascinanti casi del secolo scorso. Perché a quell’apparire non giovò la fortuna né difettò la forza. Ezio percorse il cielo come una meteora rara e fragile in lite con la gravità. Solcò il blu profondo senza però raggiungere il culmine della volta millenaria spegnendosi solo qualche attimo più tardi. Il talento di Ezio rimase così a lungo sconosciuto, non considerato se non del tutto ignorato, almeno fin tanto che non provvide il tempo e l’ostinazione di qualche anima buona.
Una vita breve e intensa
Ezio ebbe una vita breve e intensa, tragicamente recisa a soli trentadue anni da una leucemia fulminante. Quei pochi anni, peraltro feriti dall’esperienza di una guerra mondiale e da una rocambolesca fuga dalla deportazione, bastarono, però, per farne uno dei più avvincenti capitoli della letteratura italiana. Il suo straordinario romanzo “Casa d’altri”, pubblicato postumo, fece, seppur tardivamente, gridare al miracolo critici, poeti e scrittori. Considerato da Eugenio Montale, ma anche da Raboni, Citati e Bertolucci, come il miglior racconto del Novecento, “Casa d’altri” racconta una terra straniera e immobile, una montagna appenninica spoglia di illusioni e valori, dove un prete “da sagre” deve maneggiare la complessa trama della materia umana di una frontiera desolata. In quel luogo aereo gli uomini «vivono e basta», vivono «e poi muoiono» non diversamente dai loro animali. Il suo è un racconto epocale, una singolare e brillante connessione con temi e pagine che decenni più tardi conquisteranno spazio e consensi nel solco di apprezzate correnti letterarie.
Un panorama di pietra
Quella grana fina, i temi della solitudine e dell’irrimediabile e un’intima leggerezza “fatta d’aria” raccontano un panorama di pietra e sole dove gli uomini abitano una fatale estraneità a tutto, anche a loro stessi, e rimandano ad una fitta trama di desinenze che abbracciano il neorealismo e tutte le pulsioni culturali che agitavano l’Italia dell’immediato dopoguerra. Ma le sue pagine vanno anche oltre sino a testimoniare la stessa tensione morale di grandi maestri come Joseph Conrad, Ernest Hemingway, Charles Dickens e Henry James. Ezio non racconta solo la montagna ma scrive anche di sé e di quel buio che domina spesso le esistenze, che spinge a grandi avventure o a precipitose ritirate. Lo fa con grazia e cura, in punta di penna, con la consapevolezza che la solitudine è davvero tale solo se coltivata all’interno di una comunità, all’ombra di convenzioni e canoni. “Casa d’altri” è un libro corale, imperniato su molte e diverse solitudini, inciso nel perimetro di tante mute disperazioni. D’Arzo affrontò questi temi senza alcun compiacimento o virtuosismo, senza tenerezza o comprensione. Quel realismo giungeva da lontano. Lo aveva accompagnato lungo tutti i suoi primi anni. Perché Silvio conosceva bene la trama tenue dei rapporti umani, la necessità, il bisogno e la fame. Veniva infatti da un’infanzia indigente, difficile e poverissima. Non era cosa che amava sbandierare ma di cui nemmeno si vergognava. Quella sua strada l’aveva tracciata guadando un mare di difficoltà e parando quasi tutti i brutti tiri del destino. Non si era mai arreso, nonostante un costante fiorire di cortesi rifiuti. Alla fine, Ezio si era guadagnato spazio nonostante tutto e tutti, i pochi lettori, i censori e i critici. I suoi scritti, soprattutto i più importanti, rimasero a fare anticamera, a cercare attenzione, ascolto e interlocutori. Li trovarono finalmente quando però ormai il suo tempo era purtroppo terminato.
Incertezze irrisolte
Ezio raccontava di sé e delle molte incertezze che lo riguardavano. Alcune di queste ne avevano profondamente segnato il giovane ma già maturo passo. Perché Ezio la vita l’aveva affrontata in semplicità e solitudine, da persona schiva e marginale, da outsider, lontano dalla ribalta. In ragione anche di una strana forma di pudica timidezza, si era abituato sin da piccolo a celare per bene il proprio talento tra le trame di un florilegio di misteri, vezzi e una lunga teoria di pseudonimi (Silvio D’Arzo, Andrea Colli, Oreste Nasi e Sandro Nedi furono solo i più noti). Nel corso dei decenni successivi alla sua scomparsa, nonostante la tardiva notorietà raggiunta, i suoi scritti dovettero comunque scontare la diffidenza dei salotti e il silenzio di una fetta di mondo editoriale che faticò a comprendere la portata e il valore di quel suo stile asciutto, moderno, semplice e austero, perfetto medium narrativo per il quotidiano disagio che magistralmente raccontava. “Non so se sia eccesso o mancanza di sensibilità, ma è un fatto che le grandi tragedie mi lasciano quasi indifferente. Ci sono sottili dolori, certe situazioni e rapporti, che mi commuovono assai di piú di una città distrutta dal fuoco.”