09 Giu Once in a lifetime: Jack Johnson
Il 10 giugno 1946 muore a Raleigh, nella Carolina del Nord, Arthur John Johnson, pugile di professione. Chi frequenta il ring sa bene che quel quadrato è abitato non solo da pugni e polmoni ma anche da rispetto e valori. In un mondo così violentemente poetico, per usare le parole di Joyce Carol Oates, gli scambi ravvicinati tra due pugili coronano spesso esistenze leggere, fiere e iconiche. Come nel caso di Jack Johnson, che, proprio grazie alla boxe, da una piantagione di cotone finì per conquistare, primo uomo di colore nella storia, il titolo di campione del mondo dei pesi massimi divenendo un simbolo e una leggenda per l’intera comunità afroamericana.
Il primo campione del mondo di colore
Cento anni prima dell’elezione di Barack Obama, Jack segnò un’intera epoca. Johnson era consapevole della propria fama. Viveva con i piedi ben piantati nel suo tempo, ma allevava anche sguardi lunghi intuendo, prima di altri, dove ci avrebbe condotto tutta quella stordente modernità. Fu il primo pugile ad occupare stabilmente le cronache mondane dei quotidiani, il primo a comprendere il potere di radio e cinema. Jack non dimenticò mai le sue umilissime origini di Galveston. Per questo si faceva ritrarre dai fotografi nei locali più ricercati e alla moda, alla guida di auto costose e veloci, sempre in compagnia di denaro, abiti eleganti, gioielli e donne. Per ricordare a se stesso e agli altri chi era e da dove veniva, per convincere il mondo intero che un pugile nero come lui poteva arrivare ovunque. Non a caso, quella scalata sociale dava fastidio anche perché conviveva con condotte licenziose e poco ortodosse per la “morale” dell’epoca. Ogni sua impresa, dentro e fuori il ring, divenne così un avvenimento, un argomento di discussione fatalmente destinato a dividere sempre l’opinione pubblica.
Una sfida ai costumi
Le relazioni con molte donne bianche gli costarono una condanna a un anno di carcere, un forzoso esilio all’estero, in Canada e in Europa, nonché l’unanime riprovazione di tutte le componenti della società americana dell’epoca. Ciò nonostante Jack non tornò mai sulle sue scelte, non chiese mai scusa a nessuno e difese con fierezza i suoi diritti e tutte le sue buone ragioni. Nonostante l’esuberante eccesso di qualche contraddizione, la sua fu una personalità gigantesca, pari almeno alla sua statura e alle lunghe leve che gli permettevano di tenere a bada gli avversari e tutti gli scherzi della sorte.
Da Galveston al ring
Alla boxe Jack ci era arrivato per caso. Principalmente per la sua enorme stazza. Fu così che venne infatti scelto tra i portuali di Galveston per il ruolo di sparring partner dei giovani che dovevano fare esperienza sul quadrato. Ben presto la sua innata tecnica e quella formidabile forza lo spinsero anche a combattere nelle fumose town hall, dove i pugili di colore si affrontavano davanti ai bianchi per la sonante moneta delle scommesse. Da lì al professionismo il passo fu breve. Nonostante una lunga teoria di vittorie, Jack dovette però attendere diversi anni prima di tentare la scalata al titolo mondiale, sfidando preconcetti, paure, ignoranza, discriminazione e le stesse regole del board pugilistico internazionale.
Burns vs. Johnson
Nei primi anni del Novecento le cinture del pugilato erano divise non solo per peso e categorie, ma anche per razza. Non era quindi nemmeno concepibile che un pugile di colore salisse sul ring a fare a pugni con un boxeur bianco. Ma Jack riuscì invece a spezzare questa odiosa consuetudine. Cinque anni dopo essersi aggiudicato il suo primo titolo di campione mondiale dei pesi massimi “di colore”, a spese di”Denver” Ed Martin, dopo decine di vittorie, volò infatti dall’altra parte del Pacifico, in Australia, ad affrontare e sconfiggere in quattordici riprese l’idolo locale Tommy Burns davanti a ventimila spettatori furenti. Il match venne interrotto dalla polizia per tumulti e toccò all’arbitro assegnare coraggiosamente a Jack la vittoria. La notizia fece scalpore e il parlamento del Texas emanò subito un provvedimento restrittivo per evitare che la pellicola con le riprese del match venisse proiettata nelle sale cinematografiche.
Jeffries vs. Johnson
Ma la questione non finì lì. La crescente protesta costrinse il board ad assumere l’iniziativa di convincere l’imbattuto ex campione del mondo, ormai ritiratosi da anni, il colosso bianco James J. Jeffries, a sfidare il gigante di Galveston. Malgrado le ritrosie, Jeffries cedette alle lusinghe di una lauta borsa (più di centoventimila dollari, un’autentica fortuna per l’epoca) e alle pressioni di chi pretendeva una dura lezione per quel pugile chiacchierone. Il match del secolo andò in scena il 4 luglio 1910 a Reno, nel Nevada, in una cornice di grande tensione che costrinse le autorità locali a proibire l’ingresso all’arena con armi da fuoco e alcol. Sul ring, però, non ci fu mai match. Sin dalla prima ripresa Johnson sovrastò Jeffries colpendolo con poderosi uppercut che lasciarono il segno. Il pugile bianco resistette stoicamente sino all’ultimo round, quando i secondi gettarono la spugna per evitare la scontata sconfitta. Jack divenne così il primo pugile di colore a laurearsi campione del mondo. L’esito dell’incontro produsse in tutto il Paese un’ondata di violente reazioni e di tumulti razziali che costarono la vita a 23 afroamericani e a 2 bianchi. Centinaia furono le persone che rimasero ferite, migliaia gli esercizi che subirono consistenti danni.
Niente e nessuno che lo spaventasse
Jack conservò la corona sino al 1915, quando dovette cederla in favore di Jess Willard. Nel match che si tenne a L’Avana, al meglio delle quarantacinque riprese, Johnson si arrese andando al tappeto al ventiseiesimo round. Di lì a poco seguirono i guai con la giustizia, l’esilio, la scarcerazione, una salva di fragili matrimoni, molte discussioni, tante interviste ma anche molte fiere battaglie contro provvedimenti iniqui e leggi ingiuste. Johnson rimase fedele al suo combattivo personaggio sino agli ultimi anni di vita. Morì settantuno anni fa per i postumi di un incidente stradale in Nord Carolina. Alla cerimonia di commiato, un giornalista a caccia d’ispirazione chiese all’ultima moglie che cosa avesse amato in lui. “Lo amavo per il suo coraggio”, disse Irene Pienau. “Perché Jack affrontava il mondo senza paura. Non c’era niente e nessuno che lo spaventasse”.