28 Set Once in a lifetime: René Desmaison
Il 28 settembre 2009 muore a Marsiglia all’età di settantasette anni René Desmaison, di professione alpinista e rocciatore. La montagna assume spesso una dimensione privata e personale. Per alcuni rappresenta una sfida, per altri un adorato passatempo, per altri ancora una faccenda verticale fatta di salite e discese, scalate e corde doppie. Per René la montagna era tutto ciò che poteva possedere o desiderare, la sua vita e il suo orizzonte. La montagna era il suo mondo, il limite e tutto ciò che vi girava intorno.
Una filosofia di vita
Il suo alpinismo non aveva tempo. Perché Renè, come Bonatti e Messner, amava dare del tu alle rocce e alle pareti. Scalava con mezzi poveri e tanta testa, con perizia e una buona dose di sfrontatezza. Il suo era ancora un alpinismo pionieristico abituato ad allenare pensieri lunghi da prospettive vertiginose. in quel suo mondo il tempo veniva sempre dopo, piegato sempre alle esigenze e agli azzardi. Capitava, così, che si rimaneva interi giorni appesi a rocce e forre cercando strade, valutando approcci, combattendo gli incubi sino a vedere quello che gli altri non avevano visto. René era quel tempo flessibile, la ferrea convinzione di salire sempre. Per lui l’ascesa non era però mero esercizio fisico ma piuttosto palestra spirituale e intima, coltivata in solitudine e con l’ausilio di un giro di corde, su pareti e piloni impossibili. Desmaison non era solo un impressionante mix di abilità e talento. Quel suo modo di salire e scendere in verticale raccontava un’intera filosofia, una riflessione sull’esistenza e sulla grande metafora della sfida personale alla natura, la stessa che ci spinge spesso a dare il meglio di noi per raggiungere non solo vette ma anche obiettivi di pianura, idee straordinarie o vere e proprie utopie. René amava le difficoltà. Sperimentava le vie più difficili e dirette sfidando i profili delle vette anche in pieno inverno e affrontando fatica, resistenza e fortuna come il gelo e le intemperie. Per questo il suo nome, tra la metà degli Cinquanta e i Sessanta, si lega a imprese epocali come la conquista della cresta Nord dell’Aiguille Noire de Peutérey, sul massiccio del Monte Bianco, la direttissima sulla Cima Grande di Lavaredo, la scalata della Nord del Pic d’Olan o la dura battaglia ingaggiata con i 7710 metri del Monte Jannu sull’Himalaya. Tra tutte le vette che frequentò quella che esercitò in lui il massimo fascino fu il Monte Bianco. Quella sarà fatalmente anche la sua tappa più drammatica.
Il dramma delle Grandes Jorasses
Il suo libro “342 ore sulle Grandes Jorasses”, pubblicato nel lontano 1973, è un classico della letteratura da ascensione. E’ il racconto di un’esperienza dolorosa e incredibile, la cronaca del tentativo di aver ragione della grande montagna durante una tempesta invernale. In quelle pagine intense e appassionate, Renè racconta se stesso e gli eventi di quella impossibile scalata nella tormenta, i bivacchi, lo sfinimento, il gelo, la lotta per la sopravvivenza e la drammatica perdita del compagno di cordata Serge Gousseault a soli ottanta metri dalla vetta, dalla temibile Punta Walker, una torre di roccia e ghiaccio che buca il cielo a quattromiladuecentootto metri. Una vicenda severa e difficile da superare, anche per tutte le polemiche che per anni si trascinò in scia. Desmaison provò coraggiosamente a raccontarla alla sua maniera, la stessa di Bonatti e Messner, in tutta la sua drammatica scansione, trasformandola in una battaglia ancestrale con gli elementi e il tempo, nel tentativo di infrangere per sempre l’oblio.
Uno specialista delle “direttissime”
Anche dopo quella difficile prova, Desmaison non smise mai di salire. Divenne così uno specialista delle “direttissime” più improbabili, le più folli e temibili, quelle “a goccia d’acqua”, eseguite magari nel primo gelo di un incombente inverno. René rimase sempre un figlio prediletto dell’alpinismo, un re della scalate in solitaria e delle ascese impossibili su pareti interminabili. Perché la sua montagna non era solo quella contesa a lunghi bivacchi o strappata al gelo di inaudite bufere. La sua montagna coincideva piuttosto con il suo modo di pensare e concepire la sfida e l’esistenza. Anche per questo il suo nome continua a tenere a battesimo i graniti più ripidi del Monte Bianco.
“E se le cose non stessero così, se le forze della montagna non fossero sproporzionate, infinitamente superiori a quelle dell’uomo, in che cosa consisterebbero le motivazioni profonde del grande alpinismo? Quella voglia, quel bisogno di superare se stesso senza i quali l’uomo non avrebbe attraversato gli oceani, conquistato i poli della terra, scoperto nuovi territori in un’epoca in cui le porte dell’ignoto potevano essere aperte solo dal suo coraggio e dalla sua intelligenza, nascono appunto da questa debolezza, da questa vulnerabilità”.