13 Ott Once in a lifetime: Art Tatum
Il 13 ottobre 1909 nasce a Toledo, Ohio, Art Tatum, di professione pianista. Art possedeva un raro talento. Aveva a che fare con il suono ma non con lo spartito. Perché lui, più che di musica, si occupava di vibrazioni. Quel suo tocco dava infatti anima e corpo a grappoli di note, arpeggi cristallini e armonie che, sino a qualche attimo prima, sarebbero parse solo frutto di impossibili magie.
Le sue mani
Art Tatum aveva trascorso i primi anni della sua esistenza convivendo con diversi problemi e criticità. La natura, infatti, non si era mostrata benevola. Art faticava a mettere a fuoco e distingueva a malapena le cose e le persone. Una sfortunata storia di malanni congeniti si era infine aggravata al raggiungimento della maggiore età per l’insorgere di alcune cataratte e per i postumi di una disgraziata rissa adolescenziale. I suoi occhi erano così diventati gli spenti guardiani di un mondo di ombre in movimento. Art non ci vedeva, però, in compenso, ci sentiva benissimo. Quei fantasmi sfocati lo avevano spinto a infiltrare il silenzio sino a scovarvi rumore e frastuono. Con gli anni Art aveva infatti sviluppato un udito sensazionale, talmente fine e preciso da permettergli di riconoscere le monete dal suono del loro rimbalzo. Ma, soprattutto, Art era le sue mani, ampie, rapide, nervose e flessibili. Con quell’estensione copriva tranquillamente una decima senza dover ricorrere a dolorosi esercizi. Per tutto questo Art si considerava un predestinato, perchè, secondo lui, con quell’udito e quelle mani chiunque sarebbe potuto diventare un buon musicista. Art, però, non divenne solo uno dei tanti eccellenti musicisti che sbarcavano il lunario su e giù per la 52esima strada. Art divenne invece “il” pianista per eccellenza, Mr. Tatum, l’unico e ineguagliato talento della sua generazione. Con la mano sinistra Art teneva il ritmo. Scandiva il tempo, lo scolpiva a piacimento scomponendolo in frazioni impossibili, rallentandolo sino a interromperlo salvo poi accelerare. Nonostante svolgesse compiti quasi ordinari, era pura e ineguagliata meraviglia. Ma la sua vera specialità, il suo singolare talento, si nascondeva nell’altra mano, quella destra. Era con quella che faceva il “lavoro”, quello più artistico e geniale, che andava a caccia di applausi e guai. Quelle cinque dita erano un’assoluta vertigine, un’attrazione da circo, una cosa da acrobati della tastiera, un lungo e profondo brivido.
Una musica liberata
Art Tatum non era, però, solo e semplicemente un campione di virtuosismi, uno dei tanti impeccabili specialisti che raramente escono dallo spartito e che non affidano mai alla perfezione meccanica dell’esecuzione l’obliquità di un sentimento, l’incertezza di un moto profondo o anche solo l’ombra discreta di un timido accento. A differenza del resto del mondo, Art non leggeva nè interpretava l’universo che si snodava tra le linee del pentagramma. A lui bastava prenderne un utile e umile spunto. Intensi studi gli avevano regalato una tecnica stupefacente. Disegnava il giro e mentre si allargava per fargli spazio pareva entrarne in intimità. Questione di pochi secondi, minuti al massimo. Poi, quando aveva stabilito il perimetro di riferimento, cominciava a intrecciare le linee della melodia e gli arpeggi, sovrapponendo, aggiungendo e levando. Di quel poderoso incastro di note amava indagarne la dimensione più nascosta e verticale, quella che gli permetteva sempre di arrivarne all’essenza. A tutti quegli accordi lasciava assoluta libertà. Gli consentiva di espandersi, di muoversi a piacimento nell’aria attorno a sè, di volteggiare e inseguirsi rimbalzando tra i tasti bianchi e neri del suo pianoforte come fossero il fumo biondo di un bel sigaro d’importazione. Li trattava alla pari, con grande dignità. Era così che, nelle sue mani, la musica tornava ad essere davvero protagonista, libera da costrizioni, canoni, intervalli e accenti. Era così che il suo pianoforte regalava a storici standard nuovi e inediti orizzonti. Con Art la musica si riprese il suo spazio e la sua profondità. Era finalmente tornata a farsi preziosa, impalpabile, fluida e diffusa.
Quello che si portava dentro
Art era un vero innovatore. Il suo stile suonava diverso da tutto il resto. Perché Art aveva fatto tutto da solo badando solo a quello che si portava dentro. Non aveva consumato gli spartiti, non aveva sudato sul pentagramma, né era ricorso a consigli, metodi o impostazioni. Tutte cose che vanno bene per chi non sa suonare, diceva agli amici. Il suo modo di stare al pianoforte era piuttosto un concentrato di funanbolici azzardi. Quell’incredibile velocità terrorizzava i colleghi che si guardavano accuratamente dall’esibirsi con lui, per paura di uscirne ridicolizzati. Ad Art però la competizione non importava. A lui bastava giocare da solo con le note e con il ritmo, con cui ingaggiava strane sfide che si risolvevano sempre all’ultimo istante. Art aprì molte strade nuove. Ebbe il grande merito non solo di percorrerle ma anche di lasciarle in eredità al resto del mondo. Per questo le sue eleganti e acrobatiche improvvisazioni cambiarono radicalmente il corso della musica influenzando molti esploratori e pionieri della frontiera, dal giovane Charlie Parker al maestro Rachmaninov, da Oscar Peterson a Lionel Hampton.
Un genio del jazz
Art Tatum rimase per tutta l’esistenza un fenomeno sregolato e inafferrabile. Badò solo a suonare, a muovere le mani e un bel po’ di sentimenti. Al resto non diede mai troppo bado. Come tutte le stelle più brillanti, finì per consumarsi rapidamente. L’alcol se lo portò via a soli quarantasette anni. Il mondo non versò molte lacrime sulla sua tomba, impegnato com’era a seguire il flusso di altri protagonisti. Nemmeno il tempo si mostrò troppo galantuomo, salvo qualche rara eccezione. Il cantante Billy Eckstine, un giorno, confidò infatti a un amico giornalista quali fossero stati i tre più grandi geni del jazz. Duke Ellington, disse, Charlie Parker e Art Tatum. Il giornalista, allora, chiamò Duke per strappargli una battuta o qualche commento, ma il Duca, guardingo e indispettito, chiarì bruscamente: “Il più grande cantante al mondo ha ragione, ma solo per gli ultimi due”.