16 Ott Once in a lifetime: Dino Buzzati
Il 16 ottobre 1906 nasce a San Pellegrino di Belluno Dino Buzzati Traverso, di professione scrittore, giornalista, drammaturgo e pittore. Buzzati è stato un intellettuale completo, poliedrico e appassionato, un attento osservatore delle cose di tutti i giorni, dei mille casuali intrecci e della fragile materia delle relazioni interpersonali. Buzzati ha dedicato la sua intera esistenza alla cura delle traiettorie umane. Ne ha descritto i quotidiani apici, passando dalle ombre della cronaca nera alle imprese più edificanti, dalle grandi scalate alle cadute più drammatiche, da formidabili imprese a cocenti fallimenti. Nel suo percorso, Dino si è occupato di paura e incertezza, di angoscia e mistero, cercando di inseguire le tracce del destino e dell’imperscrutabile sorte che tira i fili delle nostre esistenze. Lo ha fatto nel modo più cortese, con i toni delicati della fiaba e i registri della fantasia, dall’alto di atmosfere rarefatte almeno quanto l’aria delle vette a lui più care.
Sotto la superficie delle cose
Buzzati aveva la grande capacità di scavare l’orizzonte per scendere sotto la superficie delle cose, raccontando lo spaesamento, l’inquietudine e il disagio della modernità. La sua scrittura asciutta, così come la ruvida poetica che faceva trapelare da ogni sua cronaca, erano figlie di grandi passioni. La prima coincideva con il suo lavoro, quello di cronista, inviato speciale e redattore per il Corriere della Sera. Buzzati si occupò, infatti, per oltre trent’anni, di fatti e storie, gesta e avvenimenti, raccontando, in punta di piedi, con piglio sobrio e uno straordinario vezzo per i titoli fuori ordinanza, la cronaca “nera”, i fattacci, gli ammazzamenti, gli incidenti e le disgrazie. Dino rimaneva sul pezzo, sulla notizia, ma non rischiava mai di finirci dentro. Manteneva infatti al cospetto delle notizie una sorta di salutare distacco che coltivava con rispetto e cautela. Era proprio questo suo modo di dare del “lei” al quotidiano ad allontanare la tentazione della scorciatoia e la deriva della morbosità. Dino lavorava con le parole. Le usava sapientemente per raccontare, rinnovando quotidianamente il patto con i lettori.
Una vita da redazione
La sua vita coincideva con quella della redazione. Fuori tutta la notte, a caccia di indizi e testimoni, a respirare fino in fondo gli umori della scena del crimine oppure sveglio sin dalla prima alba, pronto ad infilarsi nella nebbia dei capannelli degli operai alle fermate del metrò per raccogliere sussurri, informazioni o confessioni. Buzzati parlava ma soprattutto ascoltava. Il perimetro della redazione era il suo ambiente elettivo, la sua palestra di vita. Lì congeniò, ideò e scrisse tutti i suoi capolavori, lì si mise di vedetta per notti intere in attesa di veder spuntare i Tartari o una notizia degna di essere raccontata. Dino era un acuto osservatore dell’umanità e dei suoi lati più complessi e controversi. Rispetto a molte altre firme di quegli anni, aveva il privilegio di vivere l’atmosfera della strada, di respirarla attraverso i tasti della sua macchina da scrivere, di raccontarla, ogni santo giorno, senza retorica maneggiando, con metodo e stile, le zone più oscure dell’anima come l’ordinaria e disarmante banalità del male. Per tutti, Dino aveva uno speciale riguardo.
Una seconda vita
Ma Dino coltivava anche un’altra profonda passione. La montagna, infatti, era, al contempo, un luogo fisico ma anche metaforico, potente ed evocativo. Il suo orizzonte preferito andava dalle cime innevate delle Pale di San Martino di Castrozza alle aspre depressioni del bellunese, dalla Val Venegia alla Val Canali. Dino respirava l’aria sferzante delle cime, dei rilievi e dei canaloni, frequentava le pareti verticali e i bivacchi, percorreva vie ferrate e cengie. Abitava questo paesaggio incantato con la ruvida sobrietà di chi è abituato ad andare per monti, ma anche con la creatività di chi ne cerca spunto, di chi non si ferma al fascino romantico del dato morfologico ma ne indaga sempre l’essenza. Tra quei sentieri nacquero molte delle sue opere letterarie, sicuramente le più celebri. Le marogne di sassi e i ghiacciai ai suoi occhi si trasformarono così in inospitali lande di frontiera, le ripide forcelle in torri inespugnabili, le ruvide pareti di roccia nelle possenti e inespugnabili mura di una fortezza. Tutto questo non si è dissolto nell’inchiostro di un libro. Fatalmente quelle montagne sanno ancora di lui e delle sue lettere. Quando torno a camminare su quei magnifici sentieri d’alta quota non dimentico mai di mettere nello zaino “Il deserto dei Tartari”, forse il suo libro più conosciuto. Perchè quella straordinaria opera, così contemporanea e inquieta, racchiude davvero la sua esistenza, quella concreta della redazione di notte e quella fantasticata che prendeva il sopravvento non appena scorgeva le vette. Quel libri non sarebbe nato senza quelle adorate derive, senza le ruvide corde, i nervi tesi dell’alpinista, l’incertezza dell’ancoraggio alla roccia o senza il sapore amaro di un caffè notturno consumato tra i neon della redazione. Quelle pagine furono il mirabile frutto della perfetta congiunzione tra le due passioni del suo tempo. «Ho immaginato questa storia nelle lunghe notti trascorse al Corriere della Sera. Accanto a me nella cucina del giornale, c’erano colleghi più illustri, o chiaramente destinati a diventarlo; ma c’erano anche colleghi con le borse sotto gli occhi, ormai anziani, appiattiti dalla routine del lavoro quotidiano, sbiancati in viso da una vita con gli orari alla rovescia, ormai senza nessuna speranza di sfondare e di diventare qualcuno, senza neanche la speranza di vedere la propria firma sul giornale. Ecco: “Il deserto dei Tartari” è nato da qui, da questo rapporto con tanti amici frustrati che non avrebbero mai avuto un giorno di gloria, gente nata, vissuta e destinata a morire in silenzio».