05 Nov Once in a lifetime: Luis Cesar Menotti
Il 5 novembre 1938 nasce a Rosario, nella Pampa argentina, Cesar Luis Menotti, di professione calciatore, allenatore e dirigente calcistico. Sin da giovane, “El Flaco” si è nutrito di abbondanti dosi di quel pensiero laterale che, da sempre, è il più pregiato marchio di fabbrica del calcio sudamericano. Fosse stato anche solo per il modo bizantino con cui trattava il mondo e le sue faccende, Menotti si sarebbe guadagnato d’ufficio una cattedra di filosofia, magari di quella poco ortodossa che ha quotidianamente dispensato, tra un allenamento e l’altro, a calciatori, giornalisti e addetti ai lavori.
L’insana passione di un calciatore riluttante
Prima di sedere in panchina, anche Luis aveva calcato i campi di gioco. Gli ottimi natali lo avrebbero voluto professore universitario, influente avvocato o dirigente d’azienda, ma alla scrivania lui aveva preferito il prato. Gli anni giovanili gli avevano regalato un’insana passione per la palla e, soprattutto, per la sua imperscrutabile arte. Luis era un agonista riluttante e moderato. In campo correva poco. Faceva viaggiare la palla, piuttosto. Menotti si trovò così un buon posto in campo per dirigere il traffico: dopo qualche iniziale indecisione finì infatti con il sistemarsi al centro immediatamente alle spalle dell’attacco del Rosario Central. La sua ieratica altezza lo sfaceva svettare sui compagni e ne divenne un facile riferimento. Fece carriera rimbalzando lungo tutto il continente e vestendo le livree di Racing, Boca e Santos. Ma quella sua indole sospesa, flemmatica ma pur sempre decisa e determinata, gli regalò le migliori opportunità al termine di quella avventura. Appesi gli scarpini al chiodo, i Rosario Old Boys lo invitano a sedersi in panchina. Nonostante la giovane età, Luis è già prigioniero di un solco lungo e triste che comunica saggezza e maturità. Menotti sembra fatto apposta per stare in panchina a masticare sigarette e il destino ne prende buona nota. E’ così che si rassegna a rimuginare football e sogni sino a diventare un’assoluta icona dei suoi tempi.
“El Flaco”
La sua andatura incerta mi ha spesso sollecitato rischiosi paragoni. Quella figura allungata e quei lineamenti scavati e severi sembravano il perfetto corollario a tatticismi letterarie e a raffinate speculazioni. L’immancabile sigaretta in bilico dalle labbra richiamava altri pensatori post-moderni come Zdenek Zeman e Manlio Scopigno. Con Zeman, Luis ha condiviso la stessa spiccata predilezione per le sottili trame psicologiche mentre a Scopigno lo avvicinò l’ombra di un’idea romantica del mondo. Impermeabile all’imperante banalità e al credo del “calcisticamente corretto”, Menotti è sempre rimasto un’anima marginale, scomoda e spigolosa. Il suo carattere scolpito e deciso si è dato in pasto a grandi passioni e ad un’innata vocazione per l’irregolarità che si rispecchiava spesso nel gioco delle squadre che allenava: fitte ragnatele di passaggi, possesso palla e alto tasso tecnico erano, infatti, il perfetto complemento di improvvise folate ed una discreta dose di assortite magie. Al risultato a tutti i costi, Luis ha sempre preferito la trama del bel gioco, in luogo della semplicità e del passaggio lineare ha scelto un fitto tappeto di tocchi e ritocchi, alla potente conclusione da venti metri ha privilegiato la più rischiosa rabona d’artista. Perché per Luis la palla era come la penna. Una partita era una pagina aperta da inventare, rincorrere e scomporre, da agitare e consegnare alla fantasia della gente, perché quella era l’anima del football. E se poi, in quei frangenti, arrivavano anche i risultati, tanto meglio.
Campione del mondo
I primi successi gli aprono le porte della nazionale argentina. “El Flaco” si siede su quella scottante panchina in tempi bui per la democrazia e la libertà. Nonostante una solida coscienza politica, una proverbiale ostinazione e la radicata diffidenza nei confronti del potere, il destino sceglie proprio lui per guidare la nazionale argentina alla conquista del discusso mondiale casalingo del 1978, quello della dittatura e del generale Videla, delle torture e dei desaparecidos, e questo, forse, non se lo perdonò mai. Luis guiderà i suoi uomini quasi in silenzio, sopportando pressioni inaudite e spinte dolorose. Manterrà sempre saldo il timone, riparando quella squadra e molti dei suoi protagonisti dietro un’invalicabile muro di enigmaticità. Il resto è storia. Menotti si spingerà, tra alti e bassi, scivoloni e successi sospetti, sino all’atto finale affidando a Kempes l’onore di levare dal cilindro un tocco assassino per mortificare, per la seconda volta in quattro anni, i protagonisti del calcio totale. Molti anni più tardi, i suoi giocatori rivelarono che negli spogliatoi, pochi minuti prima di scendere in campo per disputare la finale con l’Olanda, Menotti li chiamò a sè: «Non vinciamo per quei figli di puttana. Vinciamo per il nostro popolo». Quel mondiale Menotti lo conquistò alla sua maniera, a passo di tango. Era stata una mano fortunata. Aveva lasciato a casa il prodigio Maradona puntando piuttosto sulla concreta sostanza di giocatori esperti e affamati. Aveva convocato solidi difensori e uomini d’ordine, aveva dato loro le giuste motivazioni, li aveva spinti a dare il meglio senza farsi condizionare dal sudicio olezzo della dittatura. Li aveva incoraggiati a giocare per se stessi e per il pubblico e loro gli avevano regalato la soddisfazione più grande. Pur tra vivide contraddizioni, Luis ha mantenuto negli anni il massimo status di spirito indipendente senza mai nascondere la decisa contrarietà al cospetto dell’attuale deriva pallonara. Anche per questa singolare autonomia di giudizio, Menotti rimarrà uno dei più grandi allenatori di sempre, uno spirito lucido che ha visto nel calcio non solo una forma d’arte ma anche una strada sentimentale, letteraria e onirica per dare senso all’esistente. “Il calcio è tre cose: tempo, spazio, inganno. Peccato che oggi non ci siano più i tempi, non si cerchino gli spazi e, soprattutto, non mi ingannino più”.