07 Nov Once in a lifetime: Albert Camus
Il 7 novembre 1913 nasce a Drean, Algeria, Albert Camus, di professione scrittore, filosofo e saggista. Albert era scrittura, parole e pensiero. Come molti talenti letterari di quegli anni agitati, Camus ha frequentato generi diversi sperimentando una molteplicità di canali espressivi, dal romanzo al teatro sino alla saggistica. Come per molti altri compagni di strada, la sua esplorazione ha sfiorato la sfera individuale e quella collettiva, volgendo infine lo sguardo alle pulsioni più profonde dell’uomo e alla reale natura dell’esistenza. Quello scavo intimo lo ha consegnato alla storia.
L’essenza del vivere
Albert proveniva da una modesta famiglia di agricoltori, provata dal sole e dalla ruvidità della vita. Conobbe da subito asprezza e dolore per la prematura perdita del padre, scomparso con migliaia di altre anime sul fronte della prima guerra mondiale. Per questo l’infanzia non fu agevole. Albert dovette fare i conti con un universo critico e mobile, fatto di espedienti, fatica e sacrifici. Ciò nonostante, riuscì a costruirsi ed a frequentare un quotidiano diverso. Sarà questa sua spietata concretezza a farne un caso a parte della letteratura mondiale. Malgrado svariate difficoltà, Camus non avrebbe mai perso questa attitudine. Anzi, la sua determinazione sarebbe stata premiata. Avrebbe avuto infatti la fortuna di dedicarsi agli studi grazie a una provvidenziale borsa di studio e alla benevolenza di affezionati mentori. In quei porti sicuri avrebbe cercato riparo in tutti i momenti più turbolenti.
Un’esistenza clandestina
La maturità coinciderà con una fase di grande impegno sociale. Camus si farà conoscere come una delle firme di spicco di “Alger Républicain” e dividerà quella passione civile con altre pulsioni artistiche e letterarie. Le sue prime opere presentano temi che poi torneranno spesso ad affacciarsi tra le righe delle sue pagine, come l’idea di cittadinanza, la sensazione di isolamento e, soprattutto, l’incontrollabile intreccio del destino. La seconda guerra mondiale sconvolgerà i suoi piani. Il giornale chiude, Camus viene chiamato alle armi, e ne viene sbrigativamente congedato per l’insorgere di una grave malattia. E’ allora, tra quei passi incerti, che Albert incontra un nuovo amore. Camus si risposa e se ne va a Parigi. La sua nuova esistenza francese è una vita diversa da quella precedente, meno solare e decisamente più clandestina. Camus si arruola nella resistenza partigiana e si concentra su quel trittico di opere che lo farà conoscere al mondo intero. Il suo impegno civico non verrà mai meno, nemmeno al termine del conflitto. Alla liberazione del 1945 diventa infatti redattore di “Combat” e offre così i suoi contributi al dibattito politico e sociale. Affronterà tutti i temi più scottanti dell’attualità girando il mondo per raccontare il disagio e le derive di quel complicato presente. Il suo lavoro solleverà parecchia polvere alimentando pregiudizi e fraintendimenti nella comunità letteraria. Da quei polemici confronti, Camus ne uscirà provato sia nel fisico che nell’anima. Non sarà, però, la strumentalità di quei giudizi nè, tantomeno, il superficiale sprezzo dei commenti a rammaricarlo, quanto piuttosto quell’onda lunga di spietato rigore ideologico che soffocava ogni dialogo separando le idee e le coscienze. Conoscerà, così, una fase di ripiegamento e di introspezione che nemmeno l’ambito riconoscimento del premio Nobel saprà sciogliere o, quantomeno, contenere. Il 4 gennaio 1960 si piegherà a un destino implacabile. Dopo tanti rischi e tanti viaggi in luoghi esotici e lontani, la morte lo attenderà sul ciglio della statale che lo avrebbe riportato alla sua casa parigina. L’auto, su cui viaggia in compagnia del suo editore, sbanda improvvisamente ed esce di strada facendo definitivamente calare il sipario sulla sua straordinaria avventura.
L’estraneità a tutto
In alcuni dei suoi capolavori, come “La peste”, “Lo straniero” o “La caduta”, Camus mette in luce l’assurdità delle pretese dell’uomo e ne smaschera la meschina arroganza del voler sempre attribuire un senso alle cose con cui si confronta. Ma Camus si spinge oltre. Narra infatti una sensazione di profonda estraneità, confessa l’essere e il sentirsi altro e distante rispetto alle cose mondane, che accadono senza possibilità di controllo o previsione. Quella che permea le sue opere è la trama secolare delle relazioni umane, sempre fragile e effimera rispetto alla complessità del mondo. A quella fatale impalpabilità si sopravvive solo se si rimane “stranieri”, esterni e alieni a tutto ciò che ci circonda, anche all’esistenza. Questo distacco non si traduce in disimpegno, perché per Albert l’uomo rimane comunque padrone del proprio destino. Dipende, piuttosto, dalla propria coscienza e dalla capacità di lasciare traccia attraverso il salvifico ricorso a tanti piccoli o grandi atti di rivolta filosofica, politica e poetica. Questo suo senso di intransigente distacco rispetto al quotidiano ne costituisce forse l’accento letterario più alto e lo avvicina maggiormente a tanti inquieti maestri della contemporaneità, come Calvino, Baudelaire e l’amico Sartre. Ed è proprio in questa centralità etica che Camus rivela tutta la sua grandezza e la sua modernità.
“In tutte le circostanze della sua vita, ignorato o provvisoriamente celebre, imprigionato nella stretta della tirannia o per il momento libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della libertà. Poiché la sua vocazione è quella di riunire il maggior numero possibile di uomini, egli non può valersi della menzogna e della schiavitù che, là dove regnano, fanno proliferare la solitudine. Qualunque siano le nostre debolezze personali, la nobiltà del nostro mestiere avrà sempre le sue radici in due difficili impegni: il rifiuto della menzogna e la resistenza all’oppressione.”