24 Feb Once in a lifetime: Gigi Meroni
Il 24 febbraio 1943 nasce a Como Luigi Meroni, calciatore per passione. Gigi non è stato solo uno straordinario giocatore. Gigi ha interpretato e rappresentato il respiro e i sogni di un’intera epoca. Le sue serpentine hanno infatti battezzato una straordinaria attitudine creativa ed irregolare che il vento della modernità ha poi, in seguito, purtroppo disperso nei mille rivoli di un ordinario e grigio professionismo. Per questo Gigi, come e più di Best e Cruyff, rimane ancora oggi un’icona: perché ricorda a tutti noi cosa dovrebbe essere il gioco del calcio e la sua passione.
La “farfalla”
Il suo non era solo un soprannome. Perchè Gigi era davvero una “farfalla” per via di quello stile leggero e impalpabile. In campo si muoveva con un’attitudine aerea e rapida, libera da schemi. Erano proprio quelle caratteristiche a regalargli il supremo dono di aggirare le difese avversarie: il suo ricco campionario di finte e dribbling ubriacava i difensori offrendo ai compagni palloni preziosi che finivano sempre alle spalle dei portieri. Come i massimi protagonisti di quella stagione, come Omar Sivori o Gianni Rivera. Perché Gigi, il “piccolo Garrincha del lago”, giocava al calcio come fosse un dio trattando la palla con l’eccentricità di un fuoriclasse e il feroce intuito di un ragazzino.
Cose difficili e spigolose
Gigi era nato per fare cose difficili e spigolose, per le più impossibili, perchè proprio quelle gli riuscivano meglio di quelle semplici. Quel suo grande cuore, quel modo generoso e geniale di prendere la vita al volo conquistava il cuore dei tifosi. A dispetto di un fisico minuto, Gigi non si risparmiava mai. Nonostante falli e ostruzioni, finiva sempre per innervosire i terzini mettendo regolarmente in imbarazzo tutte le difese più arcigne. Per questo Meroni era amato e stimato da tutti i suoi compagni di squadra, perchè era un leader naturale, un punto di riferimento in campo come negli spogliatoi.
Un beatnik del pallone
Ma Gigi era anche e soprattutto un anticonformista e un ribelle, un beatnik che amava sfidare i benpensanti e i luoghi comuni. Amava l’arte, dipingeva e disegnava. Abitava una piccola mansarda di Piazza Vittorio con la compagna Cristiana Uderstadt, la “ragazza del Luna Park”. Sul comodino teneva un piccolo teschio e portava i capelli lunghi e folti con le basette. Inseguiva George Best e Ringo Starr dei Beatles, di cui non si stancava mai di ascoltare i dischi in buona compagnia di tutti i grandi del jazz. Creava abiti e cravatte, si nutriva di libri e sfilava per le vie di Como con una gallina al guinzaglio. Gigi faceva notizia e simpatia, ma, soprattutto, faceva fare tanti gol. Come scrisse il sommo maestro Brera, “era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni”. Meroni, il calciatore artista, incarnava infatti tutte le tensioni creative che stavano cominciando a soffiare sul fuoco dell’Italia bigotta della metà degli anni Sessanta, le faceva rotolare sul terreno di gioco e le prendeva a calci. Con quelle gonfiava le reti degli stadi italiani.
La parabola di un fenomeno
Era cresciuto a Como. Da ragazzino faceva già il fenomeno. Sul campo della parrocchia la gente pagava il biglietto per correre a vedere le sue strabilianti invenzioni. In riva al lago impara a stare in campo, a mettere in difficoltà le squadre avversarie ed a realizzare caterve di gol, ma la maturazione avviene qualche anno dopo a Genova, all’ombra della Lanterna. Con la maglia rossoblù si impone per la classe delle sue incredibili giocate e per quel carattere estroverso e controcorrente. Poi arriva il trasferimento al Toro per la rotonda cifra di 300 milioni. A Torino in panchina trova due ossi duri, due allenatori burberi e di fama. Ma, contrariamente ai pronostici della stampa, Rocco e Fabbri, che quanto a cuore e intelligenza non sono secondi a nessuno, lo adottano come fosse un figlio. Gli danno entrambe la maglia numero sette, lo schierano all’ala destra e gli chiedono di giocare come più gli aggrada, senza pensare a schemi o tattiche. I ventiquattro gol in maglia granata sono roba da cineteca, da annali del pallone. Poi, però, la favola si interrompe bruscamente sul più bello per un’incredibile e tragica fatalità, per un banale incidente sotto casa, mentre attraversa Corso Re Umberto tra i primi bagliori riflessi di una domenica sera.
Un maledetto incidente
Meroni viene infatti investito in strada con l’amico Fabrizio Poletti da una Fiat 124 Coupé guidata da un giovane rampante di belle speranze di nome Attilio Romero, a cui poi un beffardo destino riserverà, molti decenni più tardi, il ruolo di presidente del club granata. Muore sul colpo tra lo strazio infinito di compagni, tifosi e di un’intera ed incredula città. Torino non è la sola a piangere, perché tutta l’Italia rimane attonita e senza parole al cospetto di un destino così atroce. La domenica successiva al Comunale si gioca il derby. Il clima è surreale. La squadra granata va in campo con la morte nel cuore, ma gioca come se lui fosse ancora lì a correre sulla fascia destra seminando santi e difensori. Il Toro maltratta, come mai prima, la Juventus. Vince quattro a zero. Tre di quelle reti le realizza il suo “gemello indio” Nestor Combin che scende in campo nonostante un febbrone da cavallo. Un altro segno del destino. Con la sua tragica scomparsa si chiude una breve ed intensa stagione, quella in cui sembrava che il calcio potesse rimanere uno sport basato su creatività, fantasia, genio e sregolatezza. A distanza di tutti questi anni è impossibile non avvertire un gelido brivido alla schiena al pensiero di ciò che invece è diventato.