23 Giu Diego Alverà racconta. Juan Manuel Fangio: la curva infinita di uno scomodo maestro.
Ci sono persone a cui l’esistenza affida un compito supremo e speciale. Ci sono persone che, per qualche singolare vezzo del caso, finiscono per attraversare circostanze complesse, delicate ed epocali senza venirne scalfiti o senza rimanerne ostaggio. Proprio come è capitato a Fangio. Perché Juan Manuel non ha solo conquistato una lunga esaltante teoria di trofei, pole position, titoli mondiali ma ha assistito alla caduta di regimi e uomini di stato sollevando polvere e fumi di benzene al cospetto di gerarchi e dittatori, rivoluzionari e principi ereditari. Ma, su tutto, Fangio ha sempre preso rischi indicibili salendo su vetture che avevano poco più del trenta per cento di possibilità di rimanere in carreggiata o di terminare la corsa.
Più di un pilotare
Juan Manuel ha così gareggiato spalla a spalla con i più grandi piloti di sempre, sopravvivendogli e rimanendo in vita molto più a lungo di loro. Per molti affezionati fan Juan Manuel era ben più di un pilota. Era un hombre dalle mille vite, uno che aveva stretto patti leonini con il destino, che lo aveva piegato al suo volere. Perchè in quei tempi la morte era fatto usuale, ordinario e sostanzialmente atteso da chi correva, un evento tragico ma in qualche modo naturale anche per chi andava a salutare la vertigine della velocità ai lati di strade bianche e impolverate. Tutto faceva parte di un fatale e affascinante gioco che in qualche modo accomunava spettatori e piloti, mettendoli tutti dalla stessa parte, lì nel mezzo a strappare secondi a paura e trepidazione, eccitazione e terrore. Tutto faceva parte di un domino pericoloso e ostinato, e purtroppo quel gioco finiva regolarmente nel dramma. Quasi per tutti, tranne che per Fangio.
“El Maestro”
Non è quindi solo per gli incredibili numeri di una lunga carriera o per le sue memorabili imprese se Fangio è diventato per tutti “El Maestro”, il simbolo e lo spirito più profondo della sfida automobilistica. Juan Manuel ha pilotato per tutti i marchi più prestigiosi, dalla Ferrari alla Mercedes, dall’Alfa Romeo alla Maserati. Ha tagliato per primo il traguardo, sfiorando la bandiera a scacchi, per ben 24 volte in 52 Gran Premi, come dire, quasi una volta su due, finendo a podio in altre undici. E’ partito dalla pole position in più della metà della gare che ha disputato, conquistando cinque titoli iridati, un record che ha resistito a lungo nella storia della Formula Uno. Numeri del genere si commentano da soli, soprattutto se messi in relazione a quell’epoca fragile, a quei circuiti ostili e a quelle vetture precarie che pesavano quattro o cinque volte le attuali e che stentavano a guadagnare stabilità e trazione. Quelle che correva Manuel, tra gli anni Trenta e i Cinquanta, non erano gare ma veri e propri giri di roulette.
Figlio di un sogno
Fangio era uno dei tanti italiani d’Argentina, figlio di un sogno e di una speranza durata mesi, almeno quanto il lungo viaggio per mare. Oltre che a due mondi, Manuel apparteneva a due date. Era nato infatti il 23 giugno 1911 ma venne registrato all’anagrafe solo il 24. Il padre, originario di Chieti, gli aveva regalato un temperamento ruvido e implacabile, schietto e riservato, lo stesso di chi ha sempre davanti un obiettivo chiaro e preciso, fosse anche solo una pagnotta o una bandiera a scacchi per conquistare la gloria. Era basso di statura e grassottello ma possedeva uno sguardo penetrante e volitivo che conquistava favori e sogni. Aveva pure due gambe storte. Per questo gli amici lo chiamavano “El Chueco”. Qualcuno azzardò che fosse proprio quella strana curvatura il suo segreto più protetto, perché grazie a quella loro innaturale piega Juan trovava nell’abitacolo una posizione più comoda rispetto a colleghi alti e longilinei.
Una scuola fatta di strade impossibili e fangose
Fangio aveva imparato a guidare a soli dieci anni per merito dello stesso meccanico che lo aveva preso in officina a fare l’apprendista lattoniere. Poi erano arrivati anche i consigli di un pilota vero e di un concessionario d’automobili, per il quale il quasi dodicenne Juan Manuel curava la consegna e il ritiro dei pezzi di ricambi coprendo in auto notevoli distanze. Furono quelle strade impossibili e fangose la sua vera scuola. Fu lì che Fangio imparò a guidare con i sensi prima che con le mani e i piedi. Poco più tardi arrivarono anche le gare vere, su sterrati polverosi e fondi incredibili. Fangiò cominciò a vincere e non si fermò più, sino a quando quel lungo continente a sud dell’equatore si fece improvvisamente troppo piccolo per le sue grandi ambizioni.
Il suo mitico “ingresso in curva”
Sbarcò quindi in Europa per cimentarsi con i migliori in età avanzata, a 36 anni, e vi rimase, vincendo il possibile, sino a 48. Aveva uno stile sicuro, affidabile, bello da vedere, preciso nell’impostare le curve e nel tenere le traiettorie. Sembrava volare da tanto riusciva a mantenere fluida la linea della vettura. Battagliò con tutti i mostri sacri, Ascari, Farina, Fagioli, Gonzales, e riuscì a sopravvivere a drammi e disastrosi incidenti, come quello di Le Mans del 1955 che costò la vita a più di ottanta spettatori ed a diversi piloti. Tra molte specialità, la più incredibile era quella di riuscire ad entrare in curva con una marcia più alta degli avversari, con il motore quindi che girava almeno mille giri più in basso. In questo modo Juan non doveva scalare le marce nè lottare con leve e ingranaggi guadagnando preziosi secondi. Oltre ad essere uno straordinario pilota, Fangio era anche un eccezionale meccanico. Aveva un’approfondita conoscenza tecnica dei mezzi che pilotava ed entrava in simbiosi con le parti più sollecitate, tant’è che spesso riusciva a fermare il mezzo anticipando anche per pochi attimi disastrosi cedimenti. E alla guida era sempre uno spettacolo, un concentrato di passione, stile, classe e potenza. Era così che usciva da curve impossibili con due colpi d’avambraccio, era così che scivolava sibilando tra cordoli con la precisione di un chirurgo, era così che richiamava lo sterzo controllando temibili derive e sbandate, sempre al momento giusto, sempre in quel preciso ed esatto secondo che lo preservava da disastrose uscite di pista come da clamorosi sorpassi.
Un singolare rapimento
Tra tante singolari avventure, Manuel provò anche l’ebbrezza di un rapimento. Capitò a Cuba per mano di rivoluzionari filocastristi, in occasione del locale Grand Prix, che peraltro si concluse tragicamente con l’ennesimo bagno di sangue per l’uscita di pista della Ferrari dell’idolo locale Cifuentes. Più che un fatto violento quel suo sequestro fu un’azione meramente dimostrativa contro il regime di Batista. Fangio rimase infatti prigioniero dei rivoluzionari per il solo tempo della gara, giusto per impedirgli di prendere il via, procurando quindi un enorme danno di immagine alle autorità. Venne rilasciato l’indomani mattina con tanto di scuse e calorose strette di mano.
Nè comodo nè accomodante
Manuel rimase nel giro delle competizioni per molti anni anche dopo il ritiro. Non divenne mai un personaggio comodo né accomodante, quelli che monopolizzano il parterre televisivo. Anzi, continuò ad ingaggiare infinite sfide polemiche con costruttori, giornalisti e piloti e, nonostante scorrettezza e radicalitá, le sue opinioni vennero sempre tenute nella massima considerazione. Non sarebbe potuto essere altrimenti, perché, in fin dei conti, era un “highlander”, l’unico “maestro” che il competitivo circus potesse tollerare.
«Non ho mai pensato all’auto come a un mezzo per conseguire un fine. Ho piuttosto sempre pensato a qualcosa di cui facevo parte, come una biella o un pistone.»