24 Giu Diego Alverà racconta. Irvine Welsh, tra Celine e i Chemical Brothers.
La sola circostanza che il suo primo libro “Trainspotting”, divenuto un successo planetario nonché un film generazionale, sia stato il frutto di una scommessa con se stesso per dare la caccia ai propri fantasmi è già, di per sé, cosa straordinaria. Irvine alla parola scritta ci è, infatti, arrivato inseguendo pensieri senza cercarla, senza frequentare corsi e accademie, senza fare anticamera nelle agenzie letterarie o pedinando editor e case editrici. La scrittura gli è capitata e lui si è arreso a quello che gli dicevano tutti, che quella cosa la doveva fare per lavoro. E’ così che Irvine è diventato uno scrittore, suo malgrado, con riluttanza e quasi malvolentieri.
Tra Celine e i Chemical Brothers
Comunque sia andata, le parole a Irvine non sono mai mancate. Grazie a loro, si è magistralmente immerso nelle ordinarie e avventurose peripezie del disagio suburbano senza rischiare mai di annegarvi né di cadere nella tentazione di trarne una qualche morale. Proprio questo ne ha fatto un capitolo a parte nella scena letteraria: perché Irvine ha rappresentato la rottura, perché ha giocato con la provocazione, perché ha messo radici profonde in quell’agitato universo di stili e derive che componeva la scena artistica contemporanea. Pur tuttavia, Irvine non si è lasciato tentare dalle sirene del nichilismo ma ha cercato sponde e riferimenti. Così Welsh ha tracciato un perimetro espressivo che faceva tesoro di attitudini distanti e che, in qualche maniera, teneva assieme gli affondi di Louis Ferdinand Celine e il graffio dei Sex Pistols con la visionarietà chimica di William Burroughs e dei Chemical Brothers. Con questi ultimi, in particolare, Welsh ha trovato nel tempo diversi punti di contatto: l’incalzare del ritmo, la vertigine del pop, l’istinto feroce della corrosione, la stilettata del killer. Allo stesso modo del nervoso breakbeat di Tom Rowlands e Ed Simons, la sua narrazione ha percorso i vicoli di un mondo irregolare e alternativo che si nutre di miti ed espedienti mescolando i più disparati ingredienti tra cui generi letterari, subculture, stili, immagini, pinte di birra e suoni abrasivi.
Una magnifica boccata di aria viziata
Splendidamente cinici, cattivi, geniali, disperati e spietati, i lavori di Welsh (da “Trainspotting” a “Il Lercio”, da “Glue” a “Skagboys”) hanno rappresentato una magnifica boccata d’aria viziata nell’ingessata scena letteraria britannica. Perché Welsh si è messo a parlare il linguaggio dei blocks e delle terraces, delle tribù del football e delle firm da periferia, trasponendo il mondo reale con lucida e sfrontata naturalezza iconoclasta. Welsh ha così fatto a pezzi la “Cool Britannia” da cartolina di Tony Blair raccontando, senza retorica o moralità, un’obliqua geometria di metafore e trucchetti, come avrebbe forse fatto un giovane Ken Loach senza zavorra ideologica e sull’onda, magari, di un bel ripasso intensivo delle opere di Germi e Rossellini.
Provocazioni, azzardi e equilibrismi
Welsh non ha mai amato i bluff. Ad essi ha sempre preferito l’arte guascona e impertinente della scommessa, della provocazione e dell’azzardo. Proprio questa è la vita che pulsa nelle pagine dei suoi libri e che si snoda lungo gli assi di un’esistenza disincantata e marginale che tiene assieme tutti coloro che hanno smesso da tempo di fare programmi. I suoi protagonisti odiano i dibattiti politici e i “buoni” argomenti, non vanno a votare e guardano con sospetto ad ogni nuova idea “illuminata”. Soprattutto, fanno dell’eccesso il loro ritmo quotidiano: si incazzano alle fermate della metro se il cellulare non prende, sono pronti a qualsiasi cosa pur di spuntare un buon prezzo al mercato, cercano sempre scorciatoie e si tengono ben alla larga dal futuro, puntando al sussidio solo per giocarsi tutto alla prossima corsa dei cavalli. Nei suoi pamphlet nervosi, scomposti e scorretti, i compromessi e i riti della vacua diplomazia hanno fatto il loro tempo. Tra le sue pagine si finisce sempre per fare i conti con la strada, si inveisce, si rutta, si mangia, si beve, si urla e si piange, si perde sangue e sudore. Perché lì, tra quelle righe, si agita tutta la tragica e anonima normalità di questi strani giorni. Perché Irvine ha compreso che la vita rimane quella cosa che non fa mai sconti agli ultimi della fila, per nessuna ragione, nemmeno quando ci sono i saldi. Perchè anche lui, come i suoi personaggi, alla fine si rifugia in passioni contrastanti, censurabili o discutibili, come la scomposta passione per i biancoverdi dell’Hibernian o il viscerale e scorretto odio per i cugini Hearts. I suoi personaggi sbagliati, estremi, sbandati e disadattati, rimangono così alla mercè di traiettorie pericolose, perennemente ai margini del perimetro, e lì si agitano, facendo i conti con il presente ed il passato e cercando di rimanere a galla tra gli stessi flutti che hanno affondato il sogno britannico.
“Nessun aspirante scrittore dovrebbe mai studiare letteratura. Amo la letteratura da scrittore e da lettore, e il modo di leggere i libri delle università è invece analitico, noioso. E poi uno scrittore ha bisogno di capacità di ricerca, di imparare a trovare le informazioni giuste. Meglio studiare, economia, belle arti o scienze che studiare letteratura”.