19 Apr Diego Alverà racconta Norman Hunter
Due giorni fa il Coronavirus si è portato via un’altro bel pezzo di storia. Norman Hunter non era solo un calciatore. Per la mia generazione e quella precedente Norman era l’icona di un’intramontabile parabola, quella del “Dirty Leeds” di Don Revie, una stagione fatta di campi in fango, di “palla lunga e pedalare” e di un calcio ruvido e maschio. Lo ricordo così, rispolverando le parole spese nella nottedel 29 ottobre 2016, mentre ero a caccia di cattivi pensieri da dedicare alla mia rubrica quotidiana di “Once in a lifetime”.
Il 29 ottobre 1943 nasce a Gateshead, contea del Tyne and Wear, profondo nord inglese, Norman Hunter, di professione calciatore e allenatore. Per un lungo decennio, Hunter ha rappresentato la cruda essenza del calcio britannico, il suo lato più duro e deciso, più fisico e cinico. Il suo nome e, soprattutto, il suo ruvido tackle hanno infatti seminato per anni il terrore tra le punte avversarie. Perché Norman non era solo un capace ed arcigno difensore ma anche un mastino alla cui implacabile morsa era difficile scampare. Ma Hunter non costituiva un’eccezione, perché quel calcio abrasivo, fatto anche di gomiti e pedate, era esattamente quello che veniva predicato e inseguito dalla stragrande maggioranza degli allenatori dell’epoca, un paradigma matematico frutto di diagonali, scontro fisico e sana cattiveria. Il calcio di Norman era il meglio di quanto andava rotolando nel fango dei leggendari campi inglesi.
Una vita presa a calci
Hunter non prendeva a calci solo la palla, ma anche la vita e le gambe degli avversari, quantomeno di quelli che non si erano dimostrati tanto lesti nel sottrarle ai suoi micidiali colpi. D’altro canto, quel calcio lo si giocava così, palla lunga e pedalare, senza tante concessioni. Si correva non solo per lasciarsi alle spalle l’avversario ma anche per evitare pericolosi grattacapi. Si correva per sottrarsi alla guardia del difensore, per salvare gli stinchi e mettersi in salvo. Correre via, agili come il vento, era infatti l’unico modo per sfuggire a terreni impossibili e agli scomposti insulti di gradinate infuocate. Ma correre significava anche salvare il futuro di un’onorata carriera. Norman non tollerava la corsa e tutta quella inutile fatica. Per fortuna lui stava dall’altra parte della barricata, perché il suo mestiere era quello di impedire all’avversario di fare gol, perché la sua missione era correre solo quanto bastava per inseguire e intercettare l’attaccante. Fu in quella veste che divenne un assoluto protagonista del miglior pacchetto difensivo di un intero decennio. Norman indossò infatti la bianca casacca numero sei del “Dirty” Leeds per quattordici lunghi anni, durante i quali vinse ogni trofeo, spedendo in tribuna migliaia di palloni e in infermeria decine di caviglie e ginocchia. Quel “Dirty” fu proprio merito suo e di qualche compagno. Eppure Norman non era nato difensore, lo era solo diventato. Fu tutta colpa di quel fisico piantato, della forza e dell’ostinazione che metteva in ogni contrasto. Nonostante qualche buon numero aereo e buoni esordi da attaccante, Revie lo fece arretrare sino a collocarlo proprio davanti al portiere. Don e la vita gli avrebbero affidato l’ingrato compito di spezzare poesia e creatività e lui lo avrebbe assolto con micidiale diligenza e determinazione.
Un killer
In campo Norman era una forza della natura: non levava mai il piede nei tackles mirando sempre in basso a quello che trovava o che si muoveva sul terreno di gioco. Era una questione di temperamento, perchè Norman si era abituato a non mollare mai. Questa specialità gli valse l’accesso nella top ten dei giocatori più duri e scorretti di sempre, un merito condiviso con altri storici “macellai” del calibro di Andoni Goicoechea, Dave Mackay, Stuart Pearce, Roy Keane e del nostrano Romeo Benetti, tutta gente che porta sulla coscienza decine di falli da codice penale. Norman era la colonna difensiva del “Dannato” United di Don Revie, quello che giocava sporco e duro, quello che intimidiva gli avversari ancora prima di scendere in campo, quello arrogante e scortese che commetteva decine di falli e faceva collezione di cartellini gialli e rossi, quello che non badava troppo allo spettacolo o allo stile, quello che però faceva sempre risultato schiacciando gli avversari nel fango delle aree di rigore. Quel Leeds di Billy Bremner, Johnny Giles, Jack Charlton, Peter Lorimer, Norman Hunter e Allan Clarke vinse il titolo della First Division nel 1969 e nel 1974, la Coppa d’Inghilterra, la Coppa di Lega, e due trofei Europei ed entrò nella storia.
Il dramma dell’eliminazione
Norman approdò anche in Nazionale. Lo chiamò Ramsey per fare da riserva al grande Bobby Moore. Seduto in panchina vinse pure un Mondiale senza mai scendere in campo. Al ritiro di Bobby, Sir Alf lo sistemò stabilmente al centro del reparto difensivo. C’era anche lui in campo nella drammatica partita di Wembley dell’ottobre 1973, quando l’Inghilterra perse la faccia e la qualificazione ai Mondiali tedeschi del 1974 per merito dello squadrone polacco di Deyna, Lato, Gadocha, Domarski e Kasperczak. Quella partita divenne un vero e proprio incubo per un’intera nazione. “In vita mia non ho mai giocato una partita a una porta sola come quella”, confessò molti anni dopo Hunter. Quella con la Polonia era l’ultima spiaggia. Serviva, infatti, una vittoria per guadagnare l’accesso alla fase finale del campionato del mondo, ma non ci fu storia. Gli inglesi calciarono nello specchio della porta per ben 36 volte, in due occasioni fecero anche tremare i pali di legno e in quattro clamorose circostanze videro spazzare via quel maledetto pallone sulla linea di porta. Qualcuno sospettò che buona parte del merito fosse anche da ascrivere all’ipnotico maglione giallo di Tomaszewski. Le cose, fatalmente, finirono per complicarsi. Toccò proprio a Norman farsi scappare sulla fascia sinistra quell’indemoniato genietto di Lato. Il traversone della punta polacca consegnò la palla a Domarski che spedì da oltre venti metri un velenoso rasoterra alle spalle di Shilton gelando la notte di Wembley. Il pareggio arrivò solo diversi minuti più tardi, grazie ad un calcio di rigore battuto da Clarke. Finì uno a uno, e così Norman Hunter e l’Inghilterra di Alf Ramsey rimasero, per la prima volta della loro storia, a guardare i Mondiali da casa, nervosamente seduti davanti alla televisione. Quell’errore Norman non se lo perdonò mai: gli avrebbe tenuto compagnia per anni tormentando sogni e ricordi. Perché quella di Wembley sarebbe rimasta la pagine più buia della sua carriera e del calcio di Sua Maestà.