04 Mag Diego Alverà racconta il “Grande Torino”
Torino, 4 maggio 1949, ore 17:03. Il trimotore Fiat G 212 siglato I-ELCE delle Avio Linee Italiane con a bordo l’intera squadra del Torino di ritorno da Lisbona si prepara per l’atterraggio all’aeroporto di Torino Aeritalia a Collegno. Alle 16:59 il pilota ai comandi comunica alla torre di controllo che taglierà sulla collina di Superga per presentarsi allineato alla pista dove, però, nè lui nè il suo G 212 purtroppo arriveranno mai. Qualcosa infatti va per il verso storto. La fitta nebbia che grava su Torino cela le prospettive e confonde i profili. Quella virata è troppo stretta e l’aereo scende troppo sulla linea dell’orizzonte. Alle 17:03 il velivolo, dopo aver piegato a sinistra, finisce tragicamente il suo volo schiantandosi contro il terrapieno posteriore della Basilica di Superga. In quell’attimo la storia si ferma. Per i decenni successivi milioni di persone ricorderanno cosa stavano facendo in quel preciso istante.
“La nebbia cancellava Superga”
L’aereo si disintegra. Muoiono sul colpo tutti i trentuno occupanti: con l’equipaggio, l’intera leggendaria squadra granata, i tecnici Leslie Lievesley e Erno Erbstein, scampato miracolosamente allo sterminio nei campi di concentramento nazisti, molti dirigenti e i giornalisti Tosatti, Casalbore e Cavallero. Con loro, nell’umida nebbia di quel pomeriggio, scompare anche il sogno italiano. «Un crepuscolo durato tutto il giorno, una malinconia da morire. Il cielo si sfaldava in nebbia, e la nebbia cancellava Superga» raccontò il cinegiornale della Settimana Incom.
Una tragedia immane
Dove si trovano le parole per raccontare una tragedia così immane? Come si racconta un congedo così violento e sinistro, un trauma collettivo di questa portata? Quella del Grande Torino è una storia illustre, incredibile e crudele. Perchè nessuna squadra aveva mai vinto tanto prima. Perchè nessuna squadra, almeno sino a lì, diversi anni prima del dramma dei Busby Babes dello United, conobbe un destino tanto tragico e beffardo. Perchè nessuna squadra scomparve insieme nell’effimero spazio di un battito di ciglia. Quei giocatori, quei ragazzi, quei figli, quei padri di famiglia solo qualche istante prima erano tutti accomodati sui sedili spartani di un aereo che li riportava a casa. Erano reduci da una partita che sapeva di festa e celebrazione. Erano seduti tra i bagagli, in compagnia dei regali per mogli e figli, probabilmente anche di qualche pensiero, grave o leggero. L’incomprensione con il compagno, la botta rimediata in partita, i muscoli che protestavano, il prossimo incontro di campionato, forse anche il contratto e il futuro che li avrebbe attesi appena scesi dalle scalette. Quei volti, quelle espressioni e quelle vite singolari, intrecciate dal caso e dalla sorte, di lì a qualche secondo sarebbero diventate ostaggi eterni di un cupo e infinito silenzio.
Un simbolo di riscatto
Quella squadra non era solo una prodigiosa macchina da gol. Il Torino del dopoguerra andò infatti ben oltre un esaltante tabellino e una lunga galleria di trofei. Vittoria dopo vittoria, quella squadra divenne un simbolo comune, un motivo di riscatto per un paese ancora affamato e a pezzi, l’anima di una nazione ferita che si stava rialzando. Il Toro di quegli anni era parte integrante di una speranza collettiva, il primo simbolico artefice di un futuro possibile. Era l’Italia che si riprendeva e ricominciava a correre e a vincere. Quella squadra, sapientemente costruita dal presidente Novo, possedeva grandissime qualità. Aveva lo stesso spirito combattivo e indomito di Coppi e Bartali, la stessa forza esplosiva di Consolini, la medesima determinazione dei bolidi emiliani, della Ferrari 125 di Sommer e della Maserati di Villoresi. A tutto questo sapeva inoltre aggiungere un inestimabile valore. Perché prima dei successi, delle esaltanti rimonte e delle imprese leggendarie, quel Torino si dimostrò squadra, un collettivo equilibrato e coeso di uomini e compagni capace di giocare a memoria tenendo assieme magistrali solisti ed eccellenti marcatori, grandi corridori e utili passisti, pregevoli palleggiatori e robusti difensori. Quella squadra era fatta da persone che rincorrendo un pallone si erano riconciliate con sogni e aspettative. Perché quel Toro era una piccola grande comunità che respirava amicizia e che conosceva il prezzo del sacrificio. Perché quelle maglie granata sapevano stringere i denti sino alla fine, sino all’ultimo assalto alla porta avversaria, sino al risultato finale.
Un football moderno, rapido ed efficace
Il Torino di Erbstein masticava un football moderno, rapido ed efficace. Negli otto anni a cavallo della guerra, porta a casa ben cinque titoli consecutivi e una Coppa Italia dimostrandosi nettamente superiore a ogni avversario che incontra. Ma il “Grande Torino” non si conquistò l’aggettivo qualificativo solo per gli esaltanti risultati ottenuti, quanto, piuttosto, per lo spirito con cui teneva il campo, per quella forza austera e determinata con cui affrontava ogni sfida e ogni avversario, senza arrendersi mai davanti alle avversità e lottando sempre con dignità e tensione su ogni pallone sino al triplice fischio finale. La tragica scomparsa nel cielo grigio di Superga lo regalò alla leggenda. Il giorno successivo ai funerali, Indro Montanelli scrisse dalle colonne del Corriere della Sera: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non sia morto ma soltanto “in trasferta”». Ed è davvero bello pensare che Mazzola, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Ossola e gli altri siano ancora in viaggio e si stiano magari preparando a scendere in campo per qualche altra sfida leggendaria, lassù da qualche parte a cavallo delle nuvole.