08 Giu Diego Alverà racconta Robert Scott
La storia di Robert Falcon Scott ha a che fare con il coraggio e la temerarietà, con le lancette del tempo e la meteorologia, con ghiaccio e navi, cani e vessilli, sci e baracche, con il freddo e il cupo peso di una capitale sconfitta.
La storia di Scott, dei suoi uomini e della loro sfortunata corsa al Polo Sud è la storia di una profonda e incontenibile ossessione, di una cosa inafferrabile che scorre nel sangue sin dalla prima alba e li spinge a guardare sempre avanti, ben oltre la prospettiva curva dell’orizzonte.
Ma la storia dell’ultima tragica avventura di Scott è anche soprattutto la storia di chi non molla, di chi sa che non ce la potrà mai fare ma, ciò nonostante, va sino in fondo a scapito di tutto, anche della propria vita.
Una profonda ossessione
L’ossessione per le esplorazioni geografiche in Scott poté più di tutto: dei radicati legami familiari, dell’amore, dei figli, del senso del dovere e, persino, della Marina Reale dove il giovane Robert era entrato giovanissimo a fare il cadetto.
Per generazioni gli Scott erano andati per mare servendo Sua Maestà. Ma Robert ben presto comprese che nemmeno uno sconfinato perimetro d’acqua avrebbe mai soddisfatto quella sua smania. Avrebbe avuto bisogno di ben altro per tenere a bada quel fuoco sacro che gli dava il buongiorno ad ogni risveglio e che accarezzava tutti i sogni che si consegnavano al buio della notte. Scott aveva bisogno di mettersi alla prova, di spingersi oltre, respirando atmosfere sottili e rarefatte per portare la bandiera del Regno Unito oltre l’ultimo fatale parallelo.
Per lui il Polo Sud non era un’inospitale terra estrema, una distesa infinita di neve, vento e ghiaccio, ma piuttosto un tòpos, un luogo simbolico, un confine dove inizio e fine si incrociano, dove il moto vorticoso arresta la sua corsa sino a celebrare il perfetto equilibrio di forze opposte e contrarie.
L’avventura del “Discovery”
L’idea di violare per la prima volta quelle terre di ghiaccio si era presentata quasi per caso per iniziativa di Clements Markham, l’attivo presidente della Royal Geographical Society. La prima spedizione fu frutto di una febbrile attività che si consumò nell’arco di pochi mesi.
La “Discovery” attracca oltre la Barriera di Ross ma Scott paga a caro prezzo l’inesperienza. Il capitano aveva avuto una buona intuizione: se non si fosse riusciti ad andar per mare o per terra si sarebbe dovuto provare per l’aere. La mongolfiera, però, non è il mezzo più indicato a quelle latitudini e il tentativo finisce nel nulla. Scott e l’amico Shackleton, altro fiero e grande protagonista di quella gloriosa stagione di esplorazioni polari, tentano allora per la via di terra utilizzando slitte trainate da pony, ma i poveri animali non resistono alle rigide temperature e il drappello si ferma così a soli 480 chilometri dall’obiettivo.
Il secondo tentativo
Quell’insuccesso lo spinge a un secondo e più organizzato tentativo. Il “Terra Nova” salpa da Londra il primo giugno del 1910. La corsa al Polo nel frattempo ha stuzzicato molti interessi mobilitando nazioni, persone e risorse. Quella guidata dal capitano Scott non è l’unica spedizione a tentare di raggiungere il Polo Sud. Robert scopre solo qualche giorno prima di prendere il mare che dovrà affrontare la temibile concorrenza del norvegese Roald Amundsen, esperto conoscitore delle regioni polari. Tra la sua spedizione e quella dell’esploratore norvegese vi sono sostanziali differenze e una diversa filosofia di fondo. Amundsen sul ghiaccio ci è praticamente nato e cresciuto. Lo annusa, ne conosce i segreti e i pericoli, ne legge ogni increspatura. Roald decide di affidarsi alla sua esperienza, ad un ridotto numero di compagni, agli sci ed ai cani. Scott ricorre, invece, alle motoslitte che, purtroppo, si riveleranno del tutto inadeguate.
Una lunga serie di errori
La spedizione norvegese è più agile, esperta e veloce. Percorre una traiettoria più diretta e beneficia di una lunga finestra di tempo stabile, Amundsen arriva alla meta precedendo Scott e i suoi uomini di due settimane.
La spedizione britannica raggiunge il Polo Sud il 17 gennaio 1912, trovando il vessillo norvegese conficcato nel ghiaccio eterno a sventolare spavaldo. Gli errori, la smania di arrivare, i rischi non del tutto ponderati chiedono purtroppo alla sorte di saldare i conti. I problemi legati, ancora una volta, all’impreparazione e all’inesperienza trasformano il ritorno dei cinque uomini in una lunga e tragica odissea.
Sfiancati dalla delusione, stremati dalla fame, dalla stanchezza e da una perenne sfida con le bufere di ghiaccio, Scott e i suoi uomini trovano purtroppo la morte a soli undici chilometri dal bivacco e dai viveri. I soccorritori li scoprono solo molti mesi più tardi, ancora rinchiusi nella tenda, l’uno a fianco all’altro, prigionieri di un infinito sonno glaciale. Scott documenta sino alla fine, sino all’ultimo respiro, quella terribile esperienza. Con loro nella tenda sferzata dal vento ci sono infatti libri di poesie, rullini fotografici e i preziosi diari in cui Robert ha annotato ogni singolo dettaglio, ogni pensiero ed ogni inconfessabile timore di quella tragica e sfortunata ultima corsa.
Un appassionato diario
Quei taccuini raccontano al mondo la fragile e appassionata grammatica di quella impresa, l’eredità personale e collettiva di quella durissima prova e l’imperituro lascito di pensieri lunghi e affilati come gli affetti che si erano lasciati alle spalle e che non avrebbero più trovato il conforto di una lacrima o di un abbraccio.
Quei diari testimoniano ancora oggi la struggente bellezza della vita e tutta la nostra incontenibile ansia di progresso.
«Fossimo sopravvissuti, avrei avuto una storia da raccontarvi sull’ardimento, la resistenza ed il coraggio dei miei compagni che avrebbe commosso il cuore di ogni britannico.»