17 Nov Diego Alverà racconta José Saramago
Il 16 novembre 1922 nasce a Azinhaga, in una terra chiamata Alentejo, José de Sousa Saramago, futuro scrittore, giornalista, drammaturgo, poeta e critico letterario nonché Premio Nobel per la letteratura nel 1998.
Saramago è stato un gigante del pensiero e della parola, probabilmente tra gli ultimi guardiani di un genere raro e prezioso. Perché José sapeva cogliere le tante mirabili storie degli esseri umani da angolazioni singolari. Le maneggiava con cura piegandole gentilmente al quotidiano grazie alle armi della metafora e della più sottile allegoria. Vi faceva ricorso con maestria per parlare d’altro, per nascondere pensieri brillanti tra le pieghe di quelle strane vite e per sollecitare riflessioni antiche e profonde come il mare che guardava dalle grandi finestre della sua casa di Lanzarote.
Un pensatore eretico
Saramago era un pensatore eretico. Per questo non lo tollerarono in molti: dittatori, ministri di culto, politici e letterati. Dalla sua aveva sempre la lucidità di idee affilate e scomode che non temevano mai di sfidare apertamente il comune sentire. Nonostante un forte vento contrario, Saramago è sempre andato per la sua strada, senza paura di offendere o piacere. A quel suo singolare percorso non appartenevano nè ostinazione nè compiacimento. José faceva solo il suo mestiere. Vedeva cose che altri non scorgevano e le raccontava inseguendo il dolce declivio della metafora, ricorrendo ad eleganti figure allegoriche e al gioco delle parti. Saramago traduceva la realtà in pensieri leggeri come le nuvole e profondi come il cono di un vulcano, come il pozzo nero che inghiotte il presente. Nei suoi lavori si respira tutta la tensione narrativa dei grandi protagonisti del primo inquieto Novecento. Le sue storie sposano contesti surreali, immaginifici e impossibili e diventano il pretesto lirico per raccontare l’uomo, le sue debolezze e le sue passioni, per studiarne i sentimenti e le inconfessabili pulsioni, i pregi e i difetti, spesso frutto di ingovernabili bizze del caso o della mutevole natura delle cose.
Un linguaggio poetico ed irrituale
Saramago parla un linguaggio originale e distante da quello dei colleghi. Scrive irritualmente, senza badare troppo a regole preordinate, a vincoli di grammatica o di punteggiatura. Le sue pagine sembrano inseguire e votarsi ad un ritmo profondo e pulsante, a grande distanza da convenzioni e codici che spesso invece adatta liberamente ad un processo narrativo sorprendente ed ogni volta diverso. E’ grazie a questo filtro poetico che Saramago narra di tempi indefiniti, mondi paralleli, umanità ipotetiche e in bilico. Perché poi è lì che, alla fine di tutto, il suo pensiero comunque cerca riparo al cospetto di un mondo crudo e diretto, privo di retorica e infingimenti, con cui i conti si fanno sempre e sino in fondo. Al centro di quelle trame e del suo rotondo ragionare c’è la crisi, un momento, spesso inaspettato, che rompe l’equilibrio sconvolgendo il corso delle cose. Perché José è il cambiamento. Lo racconta da visuali sempre differenti, partendo dagli oggetti e dai sentimenti. La sua è poesia del passaggio, di quel fragile istante che ci costringe a guardare dentro di noi, a rompere schemi e regole per sperimentare nuovi punti di vista, per comprendere gli snodi e apprezzare tutte le opportunità.
Storie eccentriche e visionarie
Nonostante qualche breve parentesi, José è sempre rimasto un prosatore innamorato dell’esistenza. Al centro di ogni sua eccentrica e visionaria storia c’è l’umanità e la sua innata capacità di adattarsi alle strette curve del destino. Con i suoi racconti e i suoi saggi, Saramago ha così raccontato l’esistenza alla stregua di un partigiano eretico, con coraggio, eterna coerenza, senso dell’etica e, soprattutto, uno stile davvero originale. Nella sua vita ha raccolto e seminato pensieri come fossero pietre, quelle stesse che prelevava da ogni punto del mondo e ricoverava nella sua casa. In quei sassi leggeva il passato e il futuro, perché quelle pietre, fatte di terra, caldo e stelle, chiudevano il cerchio naturale delle cose raccontando il mistero del nostro viaggio. Come la terra e il fuoco della sua isola deserta, come gli elementi base di un pensiero austero e elegante, perfetta sintesi di elaborazione, sottrazione e saggezza. Come le nuvole che scorgeva ogni giorno dalla finestra del suo studio. Perché quelle pietre bagnate dal sole e dalla pioggia rappresentavano il tempo, il silenzioso e supremo arbitro di tutte le nostre passioni.
Filosofia come spazio
Poco prima di andarsene per sempre, all’ora di pranzo del 18 giugno 2010, affidò al blog un ultimo pensiero: “Penso che la società di oggi abbia bisogno di filosofia. Filosofia come spazio, luogo, metodo di riflessione, che può anche non avere un obiettivo concreto, come la scienza, che avanza per raggiungere nuovi obiettivi. Ci manca riflessione, abbiamo bisogno del lavoro di pensare, e mi sembra che, senza idee, non andiamo da nessuna parte”.