Once in a lifetime: Syd Barrett

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Il 6 gennaio 1946 nasce a Cambridge Roger Keith Barrett, in arte Syd, musicista, compositore, influente sperimentatore nonchè incompreso pittore. Nel 1965 Barrett diede all’esordiente sodalizio sonoro di cui era membro fondatore il nome di Pink Floyd, ispirandosi ai suoi bluesmen preferiti, Pink Anderson e Floyd Council. Così almeno accreditano più o meno prosaicamente tutte le leggende enciclopediche. Ma, qualche anno più tardi, Syd confessò che quella storica crasi gli era stata suggerita da alcune creature extraterrestri che dormivano nel suo letto. In realtà Pink e Floyd erano solo i nomi dei due gatti di casa. Niente di più. Barrett non diede solo il nome ad una delle più importanti rockband europee, ma si distinse per uno stile chitarristico inedito e innovativo, per una spiccata propensione alla sperimentazione e, soprattutto, per una moderna attitudine alla dissonanza, alla distorsione e al feedback. Syd si spinse ben oltre i canoni del tempo, modellando un futuro sonoro rumoroso e inquieto che ebbe il merito non solo di influenzare quasi tutte le oscure derive e i nervosi approdi delle tendenze giovanili, ma anche di dare corpo alle visioni e alle tensioni creative della miglior gioventù britannica, da Bowie a Eno, passando per Page, Bolan, Townshend, Partridge e Hitchcock. Ma, contrariamente al mito iconico della rockstar, Syd era anche un personaggio ingestibile, poco malleabile, schivo, fragile e solitario, di umore mutevole, in fuga da sè stesso, dai suoi crolli e dalle sue insicurezze, sempre pronto a incamminarsi sul lato oscuro della strada. A dispetto del premiato copione dell’artista maledetto che brucia al fuoco della ribellione giovanile, Barrett si sottrasse volontariamente all’effimera popolarità di un mondo che avvertiva sempre più bizzarro e che stentava a comprendere. Il clamoroso abbandono delle scene per dedicarsi ad altri interessi come la pittura e il giardinaggio, in barba al mito, fu in realtà frutto di una decisione naturale e umorale, una sorta di inconsapevole schiaffo al conformismo artistico di un sistema di divertimento di massa che già allora privilegiava la riproduzione alla creazione, il duplicato all’originale, la docile immediatezza all’elaborazione delle trame, celebrando spesso la fama e le rendite di musicisti contabili e oscuri suonatori senz’anima. Quella scelta alla fine fu solo una questione di attitudine e stimoli, e non certo l’effetto di qualche ingeneroso e mai provato disturbo comportamentale. Vere e confermate furono invece le “ragionevoli” e discutibili ragioni dei suoi ex compagni di strada, che non lo ritenevano più funzionale a una rock band in rapida ascesa. Barrett rimase per molti anni ancora, lungo tutto il percorso dei suoi lavori solisti, un artista sorprendente, irregolare e influente, uno di quelli che sapeva sprecare bene il proprio talento, che conquistava per i dettagli, le pause e le virate, che regalava intuizioni e suggeriva traiettorie e che forse era molto più presente e lucido di buona parte dei suoi fedeli ammiratori. Sarebbe forse ora che il tempo decidesse di diventare galantuomo e dipanasse la stucchevole aurea di una posticcia leggenda per fare davvero spazio ai suoni ed ai tratti visionari dei suoi brani.