23 Giu Diego Alverà racconta Pierino Prati
Per almeno un paio di lustri Pierino è stato una delle più formidabili punte del campionato italiano, sogno di ogni allenatore e ogni squadra. Perché Prati faceva gol, perché sapeva interpretare il ruolo dell’attaccante in maniera moderna, personale, eclettica, perché sapeva muoversi con intelligenza e furbizia davanti e dietro le linee avversarie sconcertando i marcatori e obbligandoli sempre agli straordinari. In quella ingessatissima seconda metà dei Sessanta Pierino rappresentò il futuro. Rapido, agile e tecnico, potente e preciso nel gioco aereo, in campo Prati non concedeva mai riferimenti. Si portava a spasso i difensori per tutto il fronte offensivo aprendo straordinari corridoi ai compagni di reparto. Nonostante la maglia numero undici e a dispetto di quell’aria corsara da monello, Pierino era un attaccante completo che giocava ovunque e, soprattutto, faceva giocare. Per questo era considerato il naturale complemento di Rivera, una sorta di sua naturale estensione, il suo piede sinistro dal momento che quasi ogni suo gol veniva inventato e propiziato dai millimetrici lanci del “Golden Boy”.
Un fuoriclasse naturale
A giocare a quel modo, sempre sul filo del rasoio, sfidando il fuorigioco e le ire dei tifosi, non erano poi in molti a quell’epoca. Una questione non solo di coraggio ma anche di istinto e ostinazione. Di questi solo i più scaltri e coraggiosi puntavano ogni volta il difensore cercando l’angolo più lontano della porta. Lui, Zigoni e Casarsa facevano parte di questa ristretta cerchia. Forse anche per questo la storia si mostrò sin da subito riconoscente. Al rientro dal prestito di Savona Pierino aveva dovuto sgomitare per conquistare un posto in squadra. Quel Milan di Rocco annoverava una prima linea fatta di fuoriclasse del calibro di Hamrin e Sormani. Ma Pierino iniziò a segnare e non smise più. All’esordio a Vicenza siglò una doppietta che lasciò tutti di stucco, amici e nemici. Di reti alla fine di quella prima stagione ne avrebbe totalizzate 15 in 18 partite. Prati aveva grandi capacità e una naturale propensione per il gol, soprattutto per quelli più acrobatici e spettacolari. I fantastici cross di Rivera avevano finalmente trovato un perfetto terminale. Pierino amava le cose poco ortodosse ma tremendamente efficaci. Quando si alzava in elevazione al centro dell’area avversaria riusciva infatti sempre a raggiungere la sfera, anche nei modi più improbabili. Fu questo funambolico opportunismo a farne una pedina fondamentale per l’attacco rossonero. Alle sue gesta si entusiasmarono in molti, anche il sommo Brera che prese a raccomandarlo ad amici e cronisti, persino a Valcareggi che sedeva sulla rovente panchina della nazionale azzurra per una delle più belle stagioni di sempre. Il “Grande Padano” vi aveva riconosciuto la sregolatezza necessaria a far saltare il banco, vi aveva letto la ribellione al dogmi della modernità. Prati divenne così un’inamovibile colonna dello schieramento offensivo di Rocco. Pierino era il capellone, la finta ala sinistra veloce e ribelle, l’uomo della finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax, quello inviato dalla Provvidenza ad affondare con una fulminante tripletta la squadra del giovane Johan Cruyff, il futuro “profeta del gol”. Pierino fu anche la prima vittima ad immolarsi nell’incredibile caccia all’uomo organizzata dall’Estudiantes nella finale di ritorno di Coppa Intercontinentale. Quella finale Prati la giocò solo per qualche minuto: rimase in campo giusto il tempo necessario per essere duramente colpito da un micidiale calcio alla schiena del portiere Poletti e da una violenta testata di Suárez che lo atterrò e lo spedì negli spogliatoi dove riprese conoscenza solo un’ora e mezza più tardi, a partita finita, a coppa conquistata.
Uno strepitoso palmares
Con il Milan del “Paron”, di Rivera, Trapattoni e Rosato, Prati vinse praticamente tutto: due campionati, due Coppe Italia, due Coppe delle Coppe, una Coppa dei Campioni e la sanguinosa Intercontinentale. Con la maglia della Nazionale conquistò anche un Europeo e mancò per poco la finale di Coppa del Mondo nel 1970 in Messico, per il solo spazio di una cortissima panchina dove finì purtroppo per accomodarsi a fare il secondo dell’inarrivabile Gigi Riva. Ancora oggi, per molti di noi, Prati è il sapore di quel calcio ormai lontano, di quelle gradinate gremite all’inverosimile, delle magie dei grandi fuoriclasse, dei bigonci scoloriti e della nebbia ghiacciata che imprigionava la parte in ombra del prato di San Siro trasformandola in un’infida lastra bianca. Prati si è dimostrato un vero campione, anche e soprattutto, fuori dal campo, per le sue idee, i suoi valori e il prezioso lavoro di scouting nei settori giovanili. Nonostante i trofei ed i successi raggiunti con la maglia di Milan e Roma, Pierino è sempre rimasto con i piedi per terra, consapevole della fortuna che aveva avuto ma anche della grande responsabilità che derivava da tanto smisurato talento.
“Come se avessi smesso una settimana fa.”
“Solo un giocatore su 40.000 arriva ad alti livelli, e questo dato sfugge anzitutto ai genitori. Chi ha un figlio di sette-otto anni tesserato per una società importante crede di aver fatto un investimento in banca, ma così il pallone smette di essere un gioco. L’obiettivo del calcio giovanile non dev’essere produrre campioni, ma formare attraverso lo sport. Il calcio per me è stato un’avventura bellissima, che mi ha aiutato a crescere regalandomi infinite soddisfazioni. E il riconoscimento più grande non sono i trofei, ma la stima dei tifosi, anche di altre squadre, l’affetto e il calore di chi mi incontra per strada e dopo tanti anni dal mio ritiro mi stringe ancora la mano come se avessi smesso di giocare una settimana fa”.