29 Apr Once in a lifetime: Duke Ellington
Il 29 aprile 1899 nasce a Washington Edward Kennedy Ellington, di professione pianista, direttore d’orchestra e compositore. Nella galleria dei più grandi musicisti del secolo scorso Duke occupa una posizione di rilievo. Nonostante il mutevole vento artistico abbia più volte cambiato direzione, la sua figura è rimasta per decenni estremamente influente per tutte le rotte della musica afroamericana e del jazz. Ellington non aveva conosciuto la fame o la disperazione. A differenza di molti altri protagonisti di quegli anni, Duke non si era sporcato le mani con la polvere della strada e dei bassifondi dove l’anima oscura di quel suono sincopato era venuta grande tra alcol e sigarette. Duke era figlio di un maggiordomo della Casa Bianca, era cresciuto tra mura protette e buoni studi all’ombra di una media borghesia afroamericana colta, istruita ed estremamente attenta alle dinamiche sociali. Di quel contesto il giovane Edward ne è assoluto protagonista e non a caso diventa per tutti il “Duca”, per i suoi modi affabili, gentili e cortesi, per quel suo incedere leggero e signorile ma, al contempo, anche estremamente pratico e concreto. Al cospetto di altri eroi tormentati e obliqui della sua era, come ad esempio Charlie Parker o Count Basie, Duke veniva da un’altra galassia.
Edward è un ragazzo fortunato che ha piena coscienza di esserlo. La musica non è il suo lavoro ma la sua passione, un linguaggio meticcio con cui mescola magistralmente umori gospel e blues con solide basi classiche e il battito nervoso della strada.
E’ questa forza interiore a farne un inguaribile ottimista. Duke ha un decisivo vantaggio nei confronti del mondo che lo circonda, perché mostra nei confronti delle cose e delle persone che incontra e conosce un proverbiale e infantile senso di stupore. Questo moto di viscerale ammirazione è ciò che lo porta a pensare che niente sia impossibile. E’ grazie a questa energia di fondo che Ellington riesce sempre a cogliere gli aspetti positivi. In tutta la stravagante e instabile umanità che lo circonda, musicisti, artisti, uomini d’affari, di spettacolo e del crimine organizzato, trova sempre qualcosa da mettere a frutto. Non è solo una pur fondamentale questione di spleen relazionale ed empatico. La sua pare piuttosto un’attitudine, un codice per interpretare il quotidiano, perchè Duke sa osservare e ascoltare le parole come le frasi musicali, sa trovare tutte le chiavi per scavare tra gli spazi nel tentativo di catturare l’essenza e metterla a servizio della sua personale visione delle cose.
In fatto di spartiti Duke è un fenomeno, un compositore maturo e talentuoso, capace di stendere partiture epocali come “Mood Indigo” nel giro di un quarto d’ora, mentre attende che la madre finisca di cucinare la cena, eseguendola, poi, solo qualche ora più tardi, sul frequentato palco del “Cotton Club”, in una registrazione radiofonica che farà la storia della musica contemporanea. Duke componeva di getto, ovunque si trovasse, inseguendo l’ombra di un accordo, con semplicità e leggerezza. Così nacquero dalla sua penna perle assolute come “In a sentimental mood”, “Prelude to a kiss”, “Cotton Tail” o “Solitude”, scritta addirittura in piedi appoggiato al vetro di uno studio di registrazione di Chicago tra una pausa e l’altra delle registrazioni.
Duke era un signore, l’uomo più elegante, quello del dialogo e del sorriso, dei buoni argomenti e della schiena dritta, quello a cui piaceva il lusso e il caviale ma che non dimenticava mai la sua gente, quello a cui riuscivano le cose più difficili e complesse, quello che sedeva al pianoforte di traverso, con una spalla inarcata verso alto e l’altra ad abbracciare la tastiera per chiamare i tempi giusti della sua orchestra, quello che creò generi e sottogeneri e che compose centinaia di brani, quello che una sera si lasciò andare ad una fulminante jam con Joe Nanton e Bubber Miley battezzando uno stile, il jungle, che inventò il futuro, la contaminazione e il crossover culturale restituendo un cuore africano ad Harlem e cambiando per decenni il volto di New York e le mappe musicali, quello che ebbe il raro privilegio di conoscere l’Europa dal palco dei teatri più prestigiosi esibendosi davanti a regine e capi di governo. Quello che tutti rispettavano, quello che rivoluzionò la musica. Tutto questo era Duke, il “Duca”, il musicista colto e divertente di gran stile e classe, l’uomo dei sogni di un’intera generazione.