02 Mag La guerra che verrà non è la prima
Riconoscere quelle più coraggiose mi sembra impresa ben poco ardua, considerando che il calendario delle mostre è ormai più rarefatto di un’atmosfera d’altissima quota e che ormai si naviga a vista in un mare di scontata e ordinaria omologazione. Il percorso espositivo “La guerra che verrà non è la prima. Grande Guerra 1914 – 2014” allestito dal Mart di Rovereto mi è sembrato proprio una di queste, per l’originalità delle scelte, l’ampiezza del catalogo, la mostruosa attività di selezione delle opere, la commistione di linguaggi, stili, avanguardie e fughe verso il quotidiano contemporaneo e, soprattutto, per la modernità dell’idea di fondo, di rendere, cioè, la Grande Guerra non “un fantasma, ma uno scenario con il quale fare i conti”. Insomma, una splendida boccata di ossigeno.
Non conosco i motivi del prematuro congedo di Cristiana Collu dalla direzione della struttura trentina. Certo, considerando il respiro di alcune scelte come queste, si possono immaginare. Non credo però vi sia solo un problema di risorse quanto piuttosto una diffusa e consolidata criticità che attiene al più ampio spettro dei rapporti istituzionali. Mentre facevo queste considerazioni uscendo dalla mostra, peraltro assai poco frequentata, mi sono guardato attorno e ho pensato a quante cose quei meravigliosi spazi potrebbero quotidianamente ospitare, a partire da un ricco calendario di eventi, iniziative, manifestazioni, conferenze, concerti. Chi, come me, si è dovuto confrontare con l’inscalfibile e ottuagenaria burocrazia culturale, sa bene che il nodo delle risorse è poco più di un alibi. Perché ogni iniziativa può e deve reperire altrove le proprie compatibilità, perché questa idea di “pubblico” è stata spesso fraintesa ed ha bloccato creatività e innovazione solo per garantire qualche meschina rendita di posizione. Perché il principale problema delle strutture museali italiane rimane quello di essere assai poco inclusive, di rimanere chiuse a difesa di un fortino ormai deserto in un’alterità che ha fatto tempo e che risulta sconfitta dalle dinamiche sociali contemporanee. Questi grandi spazi propongono infatti percorsi a cui sostanzialmente non si può partecipare e sono la più vivida testimonianza dell’inadeguatezza di quella stessa idea di cultura elitaria che per anni hanno assicurato di combattere.
In tutta franchezza non credo sia poi così difficile dare a questi spazi una diversa chance. Magari sarebbero necessari amministratori illuminati, una comunità informata e coinvolta oltre ad una curatela del tutto indipendente che possa e debba essere valutata sulla base dei risultati, senza altro vincolo se non quello di trasformare il silenzio di quelle sale in rumore, di farne un luogo vivo e popolato, una piazza, una strada affollata di giovani come di anziani. Basterebbero forse buone idee, una politica di ingressi improntata alla maggior accessibilità, un’efficace comunicazione sui social ed un quotidiano programma culturale aperto a tutte le età, a stili e a sensibilità diverse. Servirebbe poco, forse anche solo una sana dose di azzardo e coraggio, un nuovo patto con le comunità e una direzione giovane e piena di idee, pronta a investire tutte le proprie capacità per il raggiungimento del fine.
Chissà, forse servirebbe proprio una giovane direttrice come Cristiana Collu, magari con un mandato a lungo termine, senza vincoli e sostenendone le scelte e la progettualità, anche quella più ardita e temeraria.
Ma, come si sa, almeno al Mart le cose sono andate diversamente. Peccato. In effetti, la guerra che verrà non è la prima.