18 Mag Once in a lifetime: Nobby Stiles
Il 18 maggio 1942 nasce a Collyhurst, profonda periferia nord di Manchester, Norbert Peter Stiles, di professione calciatore e allenatore. Nobby aveva sempre affrontato la vita in tackle, duramente, senza tirare mai indietro la gamba e il piede. Non per scelta, quanto piuttosto per abitudine e forza di cose. D’altro canto dalle sue parti, lungo le vie tutte uguali del sobborgo operaio dove era cresciuto, si usava così. Lì non ti regalava mai niente nessuno e le soddisfazioni, gli applausi, il lavoro e la palla te li dovevi conquistare con forza ed estrema determinazione. Perché a rubare il tempo all’avversario con qualche elegante magia finiva che ti giocavi un menisco o una caviglia scivolando di nuovo nel cono d’ombra della fabbrica da cui eri faticosamente emerso. Perché per fermare gli attaccanti bisognava essere più duri del ferro e del cemento. Nobby conosceva bene quella lezione. L’aveva imparata sin da ragazzino ogni maledetta domenica mattina, affrontando coraggiosamente il fiato ed i tacchetti di giocatori robusti e imponenti che avevano venti e più anni di lui.
Era cresciuto a forza di urti e contusioni. Aveva carpito tutte le astuzie e i piccoli riti del gioco duro ed era diventato un osso impossibile da superare, un mastino che quando c’era da risolvere una situazione intricata non badava a sottili distinzioni di sorta. Forse anche per questo la vita non lo aveva agevolato. Non gli aveva regalato la vertigine dell’altezza che avrebbe meritato né quel fisico longilineo che avrebbe in cuor suo sperato per evitarsi qualche umiliazione di troppo e, magari, fare colpo sulle ragazze al pub all’angolo della strada. Lo aveva invece battezzato basso e tarchiato, rinchiudendolo in un fisico nervoso da mozzo consumato, uno di quelli che si imbarcavano dal vicino porto di Liverpool a cercare fortuna per mare. Già che c’era, si era pure divertita a levargli qualche diottria imprigionando un’acuta e severa miopia in un paio di enormi occhiali da vista. Non paga, madre natura aveva completato il capolavoro complottando con il fato sino a portargli via metà dei denti dell’arcata superiore in una disastrosa caduta giovanile per trasformarlo in una sorta di squalo ambulante con la dentiera, un genere di calciatore che in quegli anni si incrociava spesso sui campi dei tornei minori. Perché, poi, il Regno Unito è sempre stato la patria di un calcio affascinante, bello e poetico ma anche tremendamente fisico e pericoloso.
Nonostante qualcuno immaginasse il contrario, per Nobby quell’aspetto non fu mai un problema. I problemi piuttosto li avevano gli avversari quando se lo ritrovavano davanti ringhiante e lo dovevano saltare in velocità rischiando di chiudere anzitempo la loro carriera. Ma quel calcio ruvido e fangoso si giocava così. Perché dopo il più duro e cinico dei contrasti c’era sempre la mano dell’avversario a rimetterti in piedi e a chiudere, con grande fair-play, elegantemente e senza strascichi, l’episodio di gioco. Senza discussioni, polemiche, dichiarazioni, moviole, complotti, insulti, salotti ed esperti. Andavi giù e poi qualcuno ti tirava sempre su, senza tante storie, perché così era il football, mica cose da divi o attori. Il mediano non era solo quello che spingeva fiato e palloni dalle retrovie ma anche quello che all’occorrenza faceva da ultimo baluardo, quello che doveva sbrogliare le situazioni più complicate, senza svolazzi, azzardi o eccessive confidenze. Perché fare il mediano significava, soprattutto, metterci la gamba e la faccia. E quella di Nobby, prigioniera di un ghigno inquietante e assai poco raccomandabile, era per gli avversari un temibile programma.
Al di là di una prepotente fisicità, Stiles era un brillante calciatore. Aveva un’ottima tecnica di base, due signori polmoni e una lucida visione di gioco. Fu l’innata bravura nel gestire i collegamenti tra i reparti a trasformarlo nel perno del magico Manchester United di Matt Busby. Era lui, infatti, a dare consistenza al centrocampo, era lui a chiudere gli eventuali buchi dei centrali o a recuperare palloni preziosi per Charlton, Kidd, Law e Best. Era sempre e solo lui a puntellare gli assalti avversari nelle furibonde mischie che si aprivano davanti alla porta difesa da Stepney. Nelle undici stagioni trascorse a Old Trafford Nobby vinse tutto il possibile, salendo anche sul trono d’Europa a spese del Benfica di Eusebio, che umiliò per quattro a uno nella storica finale di Wembley del 29 maggio 1968. Ma la vera rivincita sulla sorte Nobby se l’era presa due anni prima, quando aveva trascinato una nazionale inglese, mai così temeraria e fortunata, alla conquista del primo e unico titolo mondiale, entrando nella storia e nella Hall of Fame del calcio di Sua Maestà. Accadde così che il piccolo, miope e sdentato mastino di Collyhurst finì per ricevere la medaglia di campione del mondo direttamente dalle mani di quella stessa regina che trentaquattro anni dopo lo nominerà persino baronetto. Come osservò lucidamente Brian Clough “Stiles entrò nel cuore degli inglesi non solo per via del contagioso sorriso sdentato ma anche perché non si dava mai per vinto. Chiunque, in una finale mondiale, o nella vita di tutti i giorni, ad un certo punto, vorrebbe un Nobby Stiles attorno a sé. Sarebbe la cosa migliore.”