29 Giu Once in a lifetime: Nino Farina
Il 30 giugno 1966 muore ad Aguibelle, in Savoia, Giuseppe Emilio Farina, di professione pilota automobilistico. I numerosi incidenti che ne hanno scandito la carriera pare lo abbiano trattenuto più nelle corsie ospedaliere che sulle piste. Nino aveva sette vite, come i gatti. E come loro non aveva né case né padroni. Perché Nino non era solo un pilota temerario. Farina era un avventuriero del volante che prendeva la vita nello stesso modo con cui approcciava le curve degli autodromi dove si esibiva, andando incontro al destino alla massima velocità. Chi lo vedeva prendere la corda interna delle curve in uno scomposto turbinio rumoroso che sapeva di freni, bulloni e ganasce incandescenti pensava che si fosse votato al suicidio. “Sbaraglio” era, infatti, il termine più ricorrente che i cronisti associavano a quella maniera arrembante e sconsiderata di tenere la pista. A dire il vero, però, Nino non possedeva uno stile particolare. Il suo modo di correre pareva votarsi ad un’unica certezza, quella di non toccare mai i freni. Vi ricorreva solo quando era costretto dalla stretta prospettiva, quando ormai realizzava che era solo una questione di vita o di morte. Fosse stato per lui, dei freni si sarebbe tranquillamente potuto fare a meno. Chili in meno, pensava, che equivalevano a qualche chilometro di velocità in più, a un sicuro sorpasso e, forse, ad un altro podio. Grazie ad un’eclatante girandola di rocambolesche collisioni, questo suo caratteristico e inconsulto furore aveva finito per incutere timore tra i colleghi procurandogli un invidiabile vantaggio. Perchè, per la paura di essere sbattuti fuori pista, gli altri piloti rinunciavano regolarmente ad ingaggiare con lui temerarie sfide in staccata. Sarebbero state impari nonché assolutamente pericolose, perché con lui non ci sarebbe stata alcuna possibilità di spuntarla. Avrebbe vinto lui, sempre che non si fosse finiti nel fossato a far compagnia alle rane.
Il segreto di Farina era proprio quell’eccessiva irruenza, quella era al contempo la sua croce e la sua delizia. Sembrava quasi che il suo compito terminasse all’approssimarsi della variante o della curva. Lui si limitava, infatti, a spingere la monoposto alla massima velocità badando a tenerla davanti a quelle degli avversari, senza preoccuparsi troppo di linee, corde o traiettorie. Lui ci arrivava in pieno, salvo poi, all’ultimo istante, affidarsi agli offici di qualche benevola divinità che riusciva incredibilmente a combattere la gravità tenendo il bolide all’interno della lingua d’asfalto.
Con quelle divinità e la loro munifica benevolenza Nino deve avere intrattenuto uno rapporto molto stretto. Perché la sua carriera e’ stata costellata da gravi incidenti da cui è comunque sempre riuscito ad uscire. Come in occasione del battesimo del fuoco, datato 1930, quando partecipa alla Aosta – San Bernardo. E’ la sua prima corsa. Nino guida un’Alfa Romeo 1500 e, nonostante gli stretti tornanti, spinge sull’acceleratore. Va subito in testa e ci rimane a lungo, ma a poche curve dalla fine, decide di fare anche l’impossibile e raddrizza improvvidamente un tornante finendo per precipitare in una ripida scarpata. Riuscirà ad uscire quasi incolume dalle lamiere contorte della vettura, limitando i danni ad una frattura alla clavicola ed a qualche ammaccatura. O come quando, durante una sessione di prove a Monza, mentre spinge la vettura in rettilineo a duecentosessanta chilometri all’ora, il fuoco invade l’abitacolo avvolgendogli le gambe. Con grande controllo e nervi saldi Nino trova il tempo di frenare, parcheggiare la monoposto e rotolarsi sull’erba per spegnare le fiamme. Si procurerà ustioni che lo costringeranno per tre lunghi mesi in un letto d’ospedale.
Al volante dell’Alfa Romeo 158 Nino si aggiudicò il primo titolo mondiale di Formula Uno dell’era moderna, categoria in cui gareggerà sino al 1956. In carriera ha battagliato con autentiche leggende come Fangio, Nuvolari, Varzi e Ascari. Come buona parte di loro, Nino sull’asfalto della pista ci era cresciuto. L’impriting era di origine familiare. Farina era nato nel 1906 a Torino, all’epoca già indiscussa capitale dell’automobile, nello stesso giorno in cui il padre aveva fondato gli Stabilimenti Carrozzeria Farina. In famiglia aveva così respirato sin dalla più tenera età quella strana frenesia per la velocità. Lo zio Pinin lo introduce alle gare mentre i piloti di casa Lancia si accomodano spesso a tavola per cena. Nino ascolta i racconti e le confidenze di Salamano, Bordino e Nazzaro nella speranza che un bel giorno tocchi anche a lui infilarsi guanti e caschetto. Suo padre gli vuole affidare l’impresa di famiglia ma lui, presa la laurea in scienze economiche, decide che il suo posto non è dietro una scrivania ma al volante di un’auto da corsa.
Oltre che per l’esuberanza, le vittorie, le rabbiose rimonte e le molte imprese, Farina divenne celebre, sulle pagine dei quotidiani, per la mancanza di misura, per gli eccentrici comportamenti, come, ad esempio, il vezzo di correre con un sigaro cubano stretto fra le labbra, e soprattutto per la grande e smodata passione per le donne. Gareggiò per moltissimi anni senza farsi mai problema dell’età. Trovò la morte ad Aguibelle, vicino a Chambery, alla guida di una Ford Cortina Lotus mentre stava andando a Reims ad assistere al Gran Premio di Francia. Uscì di strada in una curva presa ad altissima velocità. I rilievi della stradale rivelarono che non aveva nemmeno toccato i freni. Farina, il cui coraggio, secondo Enzo Ferrari, rasentava l’impossibile, se n’era andato esattamente come aveva vissuto.