02 Mar Once in a lifetime: Giancarlo Cadè
Il 27 febbraio 1930 nasce a Zanica, in terra bergamasca, Giancarlo Cadè, di professione calciatore e allenatore. Di quel calcio ormai lontanissimo, fatto di strette di mano, di rapporti autentici e pure di qualche amatoriale scaltrezza, Cadè fu un assoluto protagonista. Giancarlo ha percorso, da calciatore, prima, e da allenatore, poi, cinquanta intensi anni del football nostrano. Dopo aver calcato con buoni risultati i campi della massima serie nel ruolo di centrocampista d’ordine dai piedi buoni, arrivando anche a vestire l’azzurro della Nazionale in occasione di una vittoriosa partita contro gli Stati Uniti, Cadè aveva subito sentito il richiamo della panchina. Non aveva fatto fatica ad accomodarsi a bordo campo perché, in realtà, quel ruolo gli era già congeniale sul terreno di gioco. Giancarlo aveva due pregi assoluti: sapeva leggere in tempo reale la partita, intuendone gli snodi e indovinando tutte le mosse degli avversari, ed era altrettanto abile nel trattare l’imponderabile e assai mutevole materia umana. Serio, riservato e composto, Cadè sapeva ascoltare tutti gli umori dello spogliatoio, era un maestro nel trovare i giusti incastri, nel tessere relazioni, nel plasmare i caratteri costruendo gruppi coesi e motivati. Grazie anche a quel suo modo pacato ma pur sempre ruvido e determinato riusciva a far convivere in una squadra qualità e quantità, estro e sostanza, gestendo le bizze del veterano come l’inconfessabile paura dell’esordiente. Cadè era un vero allenatore. Dirigeva la squadra come una piccola orchestra, ne ispirava i momenti migliori, ne assecondava gli stati di grazia ed era bravissimo a leggerne puntualmente le difficoltà. E quanto a tattica ed a capacità di gioco Giancarlo aveva pochi rivali. Le sue squadre giocavano tutte un calcio solido e ben piantato, che faceva di necessità virtù e che, pur puntando sempre al risultato, di tanto in tanto, respirava la travolgente vertigine di trame spumeggianti e attacchi arrembanti. Nel giro di qualche anno Cadè divenne una sorta di specialista della “zona calda”, un quotatissimo e ricercato mago della salvezza e della promozione. Fece bene a Pescara, a Bologna e a Mantova, benissimo a Verona negli anni del magico Hellas di Busatta, Mascetti, Bergamaschi, Luppi e Zigo-gol e molto bene anche a Torino nel biennio 1969-1971 dove portò la squadra granata a ridosso delle prime. Gli mancò poco per fare il grande salto, forse anche solo un pizzico di fortuna. Le squadre che mandava in campo erano coperte dietro ma estremamente rapide e fantasiose sul fronte d’attacco. Erano brutti clienti da affrontare, soprattutto nelle ultime giornate del campionato, magari a salvezza incassata, quando scendevano sul prato solo per il bello, per il piacere e la gioia del calcio. Furono questa tempra e questo carattere, più che il caso, a trasformarlo nell’uomo del destino, in colui che per ben due volte si prese la briga di scucire dalle maglie delle “grandi” lo scudetto che pensavano di aver già conquistato. Se fosse nato in Inghilterra, in qualche uggiosa periferia suburbana di qualche città industriale, questa sua fama di “giant-killer” lo avrebbe spinto sin sotto le torri di Wembley a giocarsi la Coppa consegnandogli magari le chiavi di qualche squadrone come il Liverpool o il Manchester United. Perché, da quelle parti, il calcio vive di imprese come le sue. Perché il calcio è fatto proprio di questo, di qualche bistrattata e piccola squadra di provincia che affronta la grande blasonata nell’atteso giorno di gloria e la mette sonoramente al tappeto. Con grande umiltà e determinazione. Per il bello del calcio e dello sport. Ne sanno qualcosa dalle parti di Milano. Perchè in un amaro giovedì di giugno del 1967 l’Internazionale del mago Herrera lasciò sul campo di Mantova uno scudetto praticamente già vinto, grazie anche ad una papera di Sarti, e perchè, ancor più clamorosamente, una domenica 20 maggio di sei anni dopo i cugini rossoneri finirono fragorosamente al tappeto, a soli due punti dall’obiettivo, gettando alle ortiche l’agognata “stella” nella “fatal” Verona di quel magico e incantato cinque a tre. Cadè era un maestro di football e di vita. Ne insegnava con serietà e impegno i fondamenti, ne diffondeva, con passione e semplicità, l’umida e rara essenza, inseguendone spesso l’impalpabile anima, senza nessun’altra alchimia se non una profonda e ineguagliata passione. Per questo da queste parti il suo nome è diventato leggenda.