30 Lug Once in a lifetime: Michelangelo Antonioni
Il 30 luglio 2007 muore a Roma Michelangelo Antonioni, di professione regista e sceneggiatore. Per la verità Antonioni è stato molto più di un semplice regista. Al cospetto dell’odierna cinematografia, drammaticamente scivolata in una grigia omologazione culturale e nella pedissequa ripetizione di standard che conseguano comodi consensi e profitti, la prima cosa che balza all’occhio, soprattutto a distanza di molti anni, è la sua assoluta e completa libertà d’azione. Nelle sue opere, infatti, Antonioni si è sempre tenuto alla larga dal canone ricorrente, senza farsi mai condizionare dalla ricerca dell’applauso o dalle attese della platea, dalle pressioni dei produttori e dalla macchina promozionale, che, anzi, ha spesso subito i ritardi, le bizze e gli indugi del suo processo creativo.
Oltre i confini.
Per tutto il suo percorso artistico Antonioni è rimasto sempre uno spirito creativo e originale, libero di andare oltre le barriere di genere, interpretando il reale con il solo registro delle emozioni e sconfinando in quello straordinario terreno di intreccio tra arti, culture e suggestioni che ha ispirato buona parte delle traiettorie dell’espressione contemporanea. Così Antonioni è andato oltre i confini, quelli esterni, tracciati da chi lo aveva preceduto, e quelli interiori, sedimentati nel corso dell’esistenza. Questo suo modo di concepire il mezzo cinematografico lo ha iscritto di diritto a quel ristretto nucleo di infiniti maestri della visione che sono riusciti ad andare oltre, a “scavare” l’immagine ripresa e riprodotta sino a inserirla un mesmerico complesso di valori, contenuti e sfumature. Nelle sue mani la camera è, infatti, diventata uno strumento d’indagine interiore, uno scandaglio dell’anima e delle sensazioni più intime e nascoste. Al pari e, forse, anche più di altri grandi registi di quella straordinaria stagione, Antonioni ha infatti vestito di senso e significato ogni inquadratura, ogni piano e ogni movimento, trasformando il cinema in un’arte completa e nel linguaggio creativo più potente.
Un cinema metaforico e evocativo
Il suo cinema ha raccontato il disagio e l’incomunicabilità con un linguaggio narrativo estremamente moderno, creando un paradigma ampiamente sfruttato nei successivi decenni. Proverbiali piani sequenza, pause insistite, sequenze dilatate e profondità asimmetriche sono diventati strumenti per allungare e deformare le ombre sulle contraddizioni e lo smarrimento del vivere contemporaneo. Il suo è un cinema della crisi, che riflette sulla precaria condizione esistenziale dell’uomo ricorrendo al potere metaforico ed evocativo dei paesaggi urbani e delle brumose distese delle tante periferie strozzate dalle ciminiere dei grandi complessi industriali. Nelle sue pellicole gli scenari virati e riflessi di una Milano di notte, l’inquieto rincorrersi delle ombre dei parchi dell’east-end londinese, il deserto assolato, le fermate d’autobus dei quartieri dormitorio ed in genere il paesaggio urbano hanno assunto un’inedita centralità. Sono infatti i loro riflessi, le sagome incerte, i colori accesi a conquistare la scena comunicando tensione e inquietudine, tristezza e disagio, ben più delle già vivide espressioni degli straordinari attori con cui ha condiviso il set. Quella di Antonioni assume i contorni di una moderna poetica dell’uomo, pura letteratura visiva che affonda precise e robuste radici anche in quella scritta, quella delle grandi pagine del romanzo del primo Novecento o quella tesa e nervosa delle avanguardie esistenzialiste.
Il senso critico del contemporaneo.
Per Michelangelo il protagonista centrale rimane comunque e sempre il quotidiano ed il senso critico di un contemporaneo indifeso e a disagio. Per Antonioni l’irrisolta criticità di una condizione umana difficile e randagia è lo specchio di un modello sociale basato su ipocrisie e convenzioni squisitamente formali, che, dietro il progresso ed il boom economico, cela una preoccupante assenza di valori. Le sue opere indugiano e tornano spesso a quel mondo falso e costruito, in annoiato affanno, alienato, metafisico e, infine, sconfitto, che pessimisticamente sceglie sempre e solo di adeguarsi e piegarsi all’onda, mai di reagire.
La sua macchina da presa non si limita ad osservare, ma scruta oltre, varca la scena e rompe schemi e metriche consolidate, creando un nuovo lessico visivo efficace e inedito che influenzerà tutta la drammaturgia filmica a venire. Nel gioco delle parti e dei ruoli Antonioni rincorre spesso il perimetro dell’ambiguità e del labile confine tra ciò che è visibile e ciò che invece si nasconde, dando sempre prova di stile, maestria tecnica e grandissima inventiva. In quell’ideale diagramma c’e spazio, anche e soprattutto, per vuoti e silenzi, che nelle sue mani diventano riferimenti ineludibili di una grammatica emotiva delle sensazioni che sembra il codice segreto di accesso ad un inquieto e lunare paesaggio dell’anima. Come sussurra il maestro Tarkovskij, “Antonioni fa parte della ristrettissima schiera di cineasti-poeti che si creano il proprio mondo, i cui grandi film non solo non invecchiano ma col tempo si riscaldano.”