12 Nov Once in a lifetime: Neil Young
Il 12 novembre 1945 nasce a Toronto Neil Percival Young, cantautore e icona del sogno americano. Di tutta la sua sconfinata discografia, le pagine che mi hanno affascinato sono sempre state quelle laterali, le più oscure, inquiete e ansiose, quelle degli esordi o dei rovesci turbolenti, dei distacchi o dei testardi e bizzarri cambi stilistici. Per merito di amici e parenti, Neil mi ha tenuto compagnia sin dalla più tenera età, in una di quelle lontane ed indefinite stagioni in cui tutto sfuma. Prima, molto prima di avere una qualche forma di matura coscienza, prima, molto prima che la coda lunga di punk e post-punk regalasse l’illusione di qualcosa da poter crescere nel rispetto di dubbi e incertezze. E, comunque, anche in quegli anni al rovescio, Neil finiva per essere sempre parte del tutto, perché anche nelle trasmissioni radiofoniche più ruvide e radicali, tra un singolo di Wire e Pop Group, capitava fatalmente di inciampare in qualche suo vecchio vinile.
Time Fades Away
Alla fine però il tempo è passato per tutti, anche per lui. Ma Neil, in tutto questo trambusto di eccentriche sfumature, è sempre rimasto se stesso, fedele al proprio copione, senza cedere alle lusinghe dei discografici, senza accomodarsi mai al tavolo di qualche seppur modesto compromesso che ne avrebbe certamente agevolato la carriera e la strada. Ostinato, ruvido e bizzarro, Neil ha tenuto stretto nelle sue mani il timone, andando spesso incontro al vento o alla burrasca, per la disperazione di qualche manager rampante e l’infinita gioia di qualche compagno di scorribanda. Ben pochi artisti si sono infatti permessi il lusso di virare con regolarità in territori sonori distanti dalle coordinate di partenza, giocando curiosamente con tradizione e rinnovamento, con generi e desinenze stilistiche. Neil ha continuato a cambiare, spesso anche temerariamente, spesso anche solo per il gusto di farlo. Il cambiamento è diventato un modo per sopravvivere ad un mito ingombrante e alle sue ombre. Questa grammatica della discontinuità, praticata e consumata in anni non sospetti e alla base, peraltro, di quegli attriti che hanno infranto il precario equilibrio competitivo dei Buffalo Springfield o la magica ed insana alchimia del sodalizio artistico con Crosby, Stills e Nash, è, in realtà, la sua firma artistica più autentica, la testimonianza eclatante di un’esuberante, ingestibile, incorreggibile e prolifica creatività.
Un’anima di frontiera
Neil è rimasto un’anima di frontiera, troppo inquieta per mettere su casa e troppo testarda per consegnarsi ad una sola bussola. Young ha così finito per abitare un luogo distante da mappe e derive, eppure ugualmente autorevole e influente. Questo suo settimo senso lo ha condannato ad una perenne resa dei conti con se stesso e con un mondo interiore popolato da esploratori e solitari hobos, regalando pagine di grande poesia e cupa lucidità. In quelle righe, Neil ha magistralmente celato speranze e illusioni, tensioni e ideali, drammi e svolte. Li ha custoditi intrecciandoli a temi millenari ed al sapore della terra e del sangue, raccontando il dramma quotidiano dei nativi americani e la metafora della corsa all’oro, le tante vite spezzate e la macabra danza dei conquistadores, gli inganni meschini di un progresso omologato e il duro prezzo di un modello di sviluppo privo di equilibrio e rispetto. Il suo è stato un viaggio incredibile. Neil non ha fatto sconti a nessuno, nemmeno a se stesso. Si è messo in strada in compagnia di auto d’epoca e pick-up, di chitarre e armoniche, di fantasmi e sensi di colpa, di amori bruciati e infatuazioni senili. Neil è invecchiato ma non è diventato uno dei tanti patetici ed imbarazzanti spettri che agitano l’attuale show-biz. Bontà sua e nostra, si è sottratto ai labirinti dell’industria del ricordo, ne è rimasto alla larga senza rimpianti o scivoloni isterici. Neil ha semplicemente continuato a suonare. Si è seduto sotto un grande albero, ha acceso l’amplificatore ed ha inseguito, ancora una volta, quel caldo fiume di note e parole che lo ha trasformato in un culto per diverse generazioni di musicisti. Senza perdere troppo smalto, Neil ha così continuato a stupire azzardando pure qualche sorpasso e prendendo, di tanto in tanto, la vita in contromano. Questa attitudine lo ha definitivamente salvato, o perduto, a seconda dei punti di vista, perché proprio nelle curve più strette è riuscito ad intrecciare lo zeitgest morale dell’epoca con percorsi intimi e dolorosi, nichilisti e disperati, perché proprio in alcune di queste pagine difficili, rumorose e dolenti, come “On The Beach”, “Tonight’s The Night”, “Time Fades Away”, “Zuma”, “Rust Never Sleeps” o “Ragged Glory”, ha racchiuso le mappe di buona parte delle derive delle scene musicali di questo futuro.