27 Nov Once in a lifetime: Jimi Hendrix
Il 27 novembre 1942 nasce a Seattle James Marshall Hendrix, di professione chitarrista e autore. Al netto e con buona pace della solita retorica enciclopedica, Hendrix ha davvero rappresentato, per tre intensi anni e quattro straordinari dischi, il futuro della musica. Non tanto per l’abilità o la tecnica, quanto, piuttosto, per la radicale visionarietà e la capacità di mescolare e tenere assieme stili e linguaggi diversi, ibridando generi apparentemente distanti, in perfetto equilbrio tra la nervosa inquietudine del blues e l’acida deriva psichedelica.
Un tempo galantuomo
Talvolta il tempo si dimostra galantuomo. Capita sempre più di rado, ma in quegli anni di tensione e cambiamento si è spesso dimostrato magnanimo con i suoi figli. Trovarsi per le mani una chitarra nei primi anni sessanta, a dispetto di quanto genericamente considerato, poteva anche non essere così eccitante. Lo poteva diventare solo se avevi davvero qualcosa da dire o da urlare in un microfono, se lasciavi fiato alle parole e totale libertà alle dita. La vertigine di quel turbine creativo si manifestò sotto le spoglie di una banale presa della corrente elettrica e aumentò fatalmente al crescere dei watt. Fu infatti su quel filo elettrico che cominciarono a correre sogni, idee, pensieri ed energie. Da lì transitarono tutti i contenuti più radicali unitamente ad una nuova visione di società, alternativa e distante da regole, pregiudizi e sovrastrutture. Per i motivi più disparati e per merito anche del solito scherzo giocato dalle geometrie del caso, Jimi è riuscito, più di tanti altri applauditi compagni di merende, a infondere tutto quel significato ai suoi brani trasformandoli nell’ideale colonna sonora del suo tempo, regalandogli un’anima ed uno spleen. In quei confusi frangenti, Hendrix ha avuto l’incredibile fortuna di venirsi a trovare al posto giusto nel momento giusto, prendendo al volo l’onda buona, cavalcandone lo zenit ed assicurando, quindi, alle sue memorabili imprese una vastissima eco.
Tra blues e frastuono
Il giovane Hendrix era cresciuto masticando blues. Aveva imparato a dargli da mangiare e da bere, lo aveva impugnato dal manico della sua chitarra sino al punto di intuire l’esistenza di un oceano enorme e sconosciuto che aveva navigato, come un temerario esploratore, senza rintracciarvi limiti. L’aveva preso per un buon segno, come chi per mare scorge all’orizzonte un battere d’ali dopo giorni di calma piatta, e prese quindi il largo senza indugi. Jimi infranse ogni barriera mescolando quanto gli suggeriva il cuore. Fu così che nel ragionevole frastuono della sua chitarra confluirono desinenze distanti, idee musicali divergenti e attitudini non convenzionali. Hendrix comprese che quello strano tumulto sarebbe diventato modernità ed amplificò il flusso di quello che sino a lì era stato considerato solo un fastidioso rumore. Con quella chitarra suonata a velocità vorticosa, saltando furiosamente scale e accordi, rivoluzionò la musica o quantomeno ciò che veniva inteso per tale.
Da radici profonde e meticcie
Jimi veniva da lontano, da radici profonde, meticcie e operose. Aveva lasciato Seattle per servire il suo paese, abbagliato da quello che stava accadendo dalle parti di New York. Fu lì, nel cuore del Village, che comprese che la sua traiettoria sarebbe stata diversa dal resto dei colleghi. Troppo strano quel suo modo di tendere le corde, troppo singolare quella sua esuberante fisicità. Attraversò l’Atlantico per andare a vedere di persona quale direzione stava prendendo l’incendio, cosa stava per accadere dalle parti di King’s Cross e di Camden. Se ne andò dagli Stati Uniti con il levare del vento e si presentò puntuale all’appuntamento con il caos. L’esperto manager Chandler lo prestò a quel mondo introducendolo alla corte dei signori del cambiamento, di Donovan, degli Yardbirds e dell’inquieto mondo del blues elettrico che già stava traslocando al lato oscuro, al cospetto di un universo dissoluto e glamour che tutti avrebbero da lì in avanti chiamato semplicemente rock. A quella musica Jimi regalò abbondanti dosi di equivoca visionarietà. Fu una sorta di tsunami, difficilmente comprensibile ai nostri giorni. Al di là dei pur rilevanti aspetti tecnici, Hendrix consegnò alla storia la libertà di un suono stordente e catartico ed una nuova e radicale frontiera. “Quello che odio è la società di oggi, con le sue relazioni di plastica e i suoi compartimenti stagni. Io rifiuto tutto questo. Nessuno mi ingabbierà mai in una scatola di plastica”
La potenza e la dignità del rumore
Fu merito suo se il rumore si guadagnò una diversa dimensione e una nuova dignità. Fu merito suo se il graffio potente delle note assunse contorni inediti, trasformando un muro di distorsioni e feedback in magmatiche costruzioni armoniche. Fu sempre merito suo se quel flusso dispensò senso e significato. Tra i rimbalzi di quelle forti vibrazioni misero radici nuove coordinate sonore che si propagarono per tutti i decenni successivi sino a battezzare quelle pulsioni rumorose che, da anni a questa parte, sono il marchio distintivo delle scene “indie” e “alternative”. Qualche affezionato cronista pensò che il suo maggiore lascito sarebbe coinciso con l’incredibile virtuosismo tecnico. In realtà, a dispetto dei tristi luoghi comuni che si consumano nelle tribune circensi dei talent show televisivi, quel suo talento acrobatico risulta forse l’aspetto più datato e meno rilevante. Perché il futuro che riuscì a stringere tra le corde Jimi lo nascose per sempre tra i solchi dei suoi lavori, quattro tesori che si smarcano dalle origini, dall’umidità delle backstreets e dal mosto selvatico delle crossroads, per inventare un suono nuovo, inquieto, notturno e metropolitano. A distanza di oltre quarant’anni, la sua singolare babele stilistica continua a stupire per il lucido rifiuto delle regole e l’obliqua ricerca di un punto di convergenza tra la frontiera di Miles Davis, l’urlo di Muddy Waters e le complesse geometrie di Handel e Bach. Così Pete Townshend raccontò uno dei suoi concerti: “Andare a vedere lo spettacolo di Hendrix fu l’esperienza più psichedelica che abbia mai avuto. Quando iniziò a suonare, qualcosa cambiò: cambiarono i colori, tutto cambiò. Cambiò il suono.”