12 Mag Once in a lifetime: Alfonso de Portago
Il 12 maggio 1957 muore a Guidizzolo, in provincia di Mantova, Alfonso Antonio Vicente Eduardo Ángel Blas Francisco de Borja Cabeza de Vaca y Leighton, XVII marchese de Portago, XII conte de la Mejorada, di professione atleta, bobbista e pilota automobilistico. Di tutta la lunga teoria di nomi e rimbalzi nobiliari che gli teneva compagnia sin dalla nascita fu il suo cognome anagrafico, il poco altero Cabeza de Vaca, a renderlo noto al grande pubblico, ma in quei pudici anni Cinquanta per tutti, sui quotidiani come nei giri delle corse d’automobile, Alfonso rimase il marchese de Portago, perché poi il “de” s’accompagna sempre e solo al titolo, mai al nome. Per l’etichetta, però, si sarebbe dovuto scrivere marchese de Portago o, qualora si fosse adottato un alfabeto più laico, semplicemente Alfonso Portago, ma per qualche strano scherzo del destino passò invece alla storia grazie alla crasi composta di Alfonso de Portago, il marchese volante, Fon per gli amici più intimi.
Il senso di un’esistenza
Alfonso era nobile, affascinante e ricco. Era figlio di un mondo separato e distratto. Poteva fare ciò che voleva quando ne aveva vezzo. Poteva cambiare albergo o residenza a piacere, poteva acquistare cose, case o bolidi, poteva decidere del proprio futuro in ogni momento della sua giornata. Quel tipo di vita leggera e aerea lo aveva abituato a non considerare gli ostacoli, perché, per uno come lui, non esistevano limiti. Forse anche per questo Fon ne andava così testardamente in cerca. Perché, come spesso accade a chi è abituato ad avere sempre tutto a disposizione, erano le cose che non poteva acquistare a stregarlo. Come il brivido della sfida e della competizione, ad esempio. Si era messo alla prova con molte discipline sportive e atletiche, come il nuoto, l’ippica, il polo, il salto con l’asta. Eccelleva in tutto, ma era la vertigine della velocità ad attirarlo, in qualunque forma, che indossasse un paio di sci ai piedi o si infilasse nella carena di un bob lungo un budello ghiacciato, che impugnasse la cloche di un velivolo o stringesse tra le mani il volante di una macchina da corsa. Aveva scelto di giocare d’anticipo e d’azzardo con la vita, non per noia ma per sentirsi vivo e all’altezza delle prerogative. Perché poi, nonostante le possibilità, Fon non ostentava mai. Chi lo vedeva aggirarsi tra le vetture prima della partenza lo avrebbe scambiato per un meccanico insonne o un giornalista appassionato. Giacche larghe e trasandate, barba di qualche giorno, profonde rughe di sonno, un fare stanco e indolente, quasi dimesso, con le mani a domare capelli che non vedevano pettine da qualche alba. Perché di tutto questo a Fon interessava poco o nulla. Perché a Fon interessava solo correre, perché solo così avrebbe dato un senso a quella vita.
Il rapporto con il Drake
Con le quattro ruote Fon ci sapeva davvero fare. Aveva cominciato a sfidare il cronometro a bordo di auto private, ma ben presto, in considerazione dell’assoluto valore delle sue prestazioni, si era calato nell’abitacolo di auto preparate dalle scuderie più importanti. Aveva battagliato con la polvere alla “Carrera Panamericana” e litigato con la fatica alla “1000 Km di Buenos Aires”. Alle gare di durata prediligeva, però, quelle su pista, nei circuiti, dove il suo stile di guida e quello spunto rabbioso diventavano agevolmente un valore aggiunto. Alfonso sembrava possedere un tocco magico al volante di una quattro ruote e Ferrari se n’era accorto. Anche per questo lo chiamò in squadra a fare compagnia a Fangio, Castellotti, Musso, Hawthorne e Collins. Alfonso era una promessa, l’astro nascente, anche se nella sua prima stagione di Formula Uno riuscì a tagliare il traguardo una sola volta, in seconda posizione dietro Fangio, al Gran Premio d’Inghilterra. Quel suo strano rapporto con il Drake era un estenuante “tira e molla” emotivo. Ferrari i propri piloti li ha sempre messi sotto pressione, mettendoli spesso l’uno contro l’altro. Era il suo modo di ottenere la massima tensione agonistica da quel gruppo di giovani campioni, tutti fatalmente attesi, tranne il talento argentino, da un destino tragico, ineluttabile e incombente.
L’ultima “Mille Miglia”
Quell’ultima “Mille Miglia” Fon non l’avrebbe nemmeno dovuta correre, ma poi il Drake, visto il forfait di Musso, lo aveva convocato di gran carriera affidandogli una macchina potente ma a lui sconosciuta. Non aveva potuto rifiutare. Aveva fatto spazio al suo fianco all’amico giornalista Gurner e aveva pure scommesso un discreta sommetta con Gendebien su chi di loro due avrebbe tagliato per primo il traguardo di Brescia. Fon non era tranquillo. Erano accadute cose che lo avevano agitato. Nelle ore immediatamente precedenti la partenza si erano infatti affacciate ombre inquietanti, lo spettro di una temuta malasorte oltre a qualche brutto pensiero. Il resto è storia. A pochi chilometri da Brescia, dopo una furiosa rincorsa ad oltre duecento chilometri all’ora su strade bianche e dissestate, ponti, piazze e viadotti, il destino lo attende al chilometro numero ventuno del rettilineo che collega Guidizzolo e Cerlongo sulla strada Napoleonica. Ormai il traguardo di Brescia non dista che poco più di dieci minuti. Fon spinge a fondo il pedale dell’acceleratore, ma la sua Ferrari 335S numero 531 esce rovinosamente di strada per l’improvvisa esplosione di un pneumatico, piombando sulla folla in festa ai lati della strada.
La tragedia
Fon muore sul colpo assieme al suo copilota, il giornalista americano Edmund Gurner Nelson. La sua Ferrari priva di controllo si porta via purtroppo anche nove spettatori, tra cui cinque piccolissime vite. Dopo quel dramma nulla fu più come prima per le corse su strada. Ne seguirono lunghe e roventi polemiche, un processo pubblico condotto dalle pagine dei quotidiani ed uno più formale celebrato nelle aule di giustizia. In qualche modo se la cavarono tutti, tranne gli assenti, ovviamente. “Inutile drammatizzare: questa è la vita di chi corre in macchina” disse Fangio ai giornalisti a caccia di notizie. Ed era vero. Niente ipocrisie, niente recriminazioni o scandali, per cortesia, ché chi corre di tempo per queste cose non ne ha. Perchè “Se non hai mai spinto sull’acceleratore, nulla è avvenuto. E soprattutto non potrai mai sapere che cosa vuol dire vivere”.