20 Lug Once in a lifetime: Helmut Haller
Il 21 luglio 1939 nasce ad Augusta Helmut Haller, di professione calciatore. Per il giovane Helmut il calcio era poco più di una passione nata nella polvere della periferia, tra pozzanghere e porte improvvisate. Il difficile dopoguerra tedesco non regalava certezze a nessuno, tantomeno a chi osava rincorrere un pallone. In quegli anni di ricostruzione e ripresa non c’è spazio per i sogni. Così, Helmut, nonostante il viscerale amore per la sfera ed i suoi incerti rimbalzi, non si fa illusioni e pensa a trovarsi un lavoro. Va a fare il camionista, a trasportare merci e speranze su e giù per le principali arterie del paese. Ma non per molto. Perché Haller con quella sfera tra i piedi ci sa veramente fare, è molto più bravo dei coetanei e questo basta ed avanza per essere notato. Gli osservatori dell’Augusta gli aprono le porte delle squadre giovanili. Helmut accetta ma non si fida di quelle belle parole: andrà a giocare con le giovanili ma non lascerà il volante del camion, almeno per un po’.
Un trequartista atipico
Helmut veste i colori della squadra della sua città per cinque lunghi anni, durante i quali cresce e matura catturando l’interesse di tifosi e addetti ai lavori. E’ un trequartista atipico, un fantasista, uno di quelli che non si vedono spesso nel calcio tedesco, all’epoca più che mai ruvido e atletico. Helmut è giocatore di classe, duttile ed eclettico: gioca bene sia a ridosso delle punte che in posizione centrale. Ha un prodigioso senso della posizione e, soprattutto, un calcio preciso e sicuro, con il quale riesce a pescare i compagni di squadra a distanza di diverse decine di metri, depositando sui loro piedi palloni incantati che attendono solo di essere spinti in rete. Una lunga serie di prestazioni convincenti gli aprono anche le porte della Nazionale, accrescendo, di partita in partita, il numero degli estimatori. Nel Mondiale cileno il giovanissimo talento trova stabilmente spazio nell’undici di partenza di Sepp Herberger. Per la Germania Ovest quella non sarà un’edizione fortunata: la squadra tedesca si ferma nei quarti per mano della Jugoslavia ma trova comunque il modo di eliminare l’Italia di Altafini, Sivori e Rivera. Per Haller piovono applausi e consensi. Bisogna sbrigarsi per evitare che si apra l’asta. Il presidente del Bologna, Renato Dall’Ara, pensa che sia l’uomo giusto per il centrocampo rossoblu. Così spedisce in Baviera il fido Sansone a stabilire un contatto e a preparare il campo, anche se poi ci va lui, di persona, a chiudere il contratto. I giornalisti lo paragonano al “cabezon” Sivori, ma per Dall’Ara “Aler” vale molto di più, perché, come dice in stretto bolognese, di piedi buoni ne ha due. Settecentocinquantamila marchi è il prezzo fissato. Haller firma e la sua storia cambia.
Il “Panzer”
A Bologna lo ribattezzano “Panzer”, più per l’insaziabile appetito per le lasagne che per la potenza. In realtà Helmut è una sorta di Pelè biondo, funambolico e casinaro dentro e fuori dal campo, dove viene spesso pizzicato dai dirigenti ad abbuffarsi al ristorante o a fare le ore piccole in discoteca in compagnia di qualche avvenente bellezza locale. Anche nei rapporti interpersonali il giovane Helmut non è uno stinco di santo. E’ polemico e grintoso e non molla mai. Parla molto e mostra di non conoscere per niente la fine arte della diplomazia. Una dichiarazione di troppo sul conto del compagno di squadra Nielsen solleva un polverone, dividendo pubblico e squadra. Ciò nonostante, in campo, sul magico perimetro verde, Haller si rivela un fuoriclasse assoluto; gioca bene e, soprattutto, fa giocare bene. Bernardini non gli chiede molto tatticamente e lui trova i perfetti sincronismi con i compagni di reparto, con Janich, Bulgarelli, Nielsen e Pascutti. Il Bologna va che un incanto e vince uno storico scudetto.
Il Mondiale del 1966
Gli attesi Mondiali inglesi del 1966 lo candidano ad assoluto protagonista. Haller diventa il principale riferimento di quella formazione che si arrende solo in finale ai padroni di casa, tra qualche polemica di troppo e un gol fantasma. Con i suoi sei gol diventa il secondo cannoniere della manifestazione, subito dietro Eusebio. Il rientro a Bologna, oltre che dalla cocente delusione, è appesantito anche da polemiche e dissapori ed un’insanabile tensione interna allo spogliatoio. Le cose non migliorano neppure quando il gigantesco danese cambia aria. Haller capisce che forse è arrivato il momento di guardarsi attorno.
Il capitolo bianconero
Lo prende al volo la Juventus. Sulla carta i bianconeri sono la squadra giusta per l’asso tedesco che deve ritrovare stimoli, energie e, soprattutto, quella continuità che lo aveva imposto nei primi anni della sua avventura italiana. Ma l’impatto risulterà più difficile del previsto. Helmut deve fare i conti con un ambiente ben diverso da quello bolognese e fatica a trovare i tempi giusti finendo anche a fare panchina. Le cose cambiano però dalla stagione successiva. Haller riacquista finalmente fiducia e il filo di una condizione ottimale. A Torino vincerà due scudetti trovando la giusta dimensione tattica di regista offensivo, arretrando il raggio d’azione e lavorando come suggeritore alle spalle di giovani e agguerriti leoni del calibro di Zigoni, Anastasi, e Bettega. Rimarrà in Italia, sotto la Mole, sino al 1973 per rientrare, quindi, in Germania, nella città natale, a chiudere in bellezza un’esaltante carriera. Il calcio gli farà ancora compagnia, senza però tentarlo con l’effimero richiamo di qualche incarico dirigenziale. Helmut ne rimarrà ai margini sino alla scomparsa, avvenuta nell’ottobre di tre anni fa.
Ritmo elevato e palleggio raffinato
Haller è stato, con Schnellinger, uno dei primi giocatori tedeschi a calcare i campi italici: la sua abilità nel trovare sempre il compagno smarcato era pari alla lucida visione di gioco e alla innata capacità di leggere in tempo reale il match, di intuirne ritmo e svolgimento, di decifrarne le differenti fasi cogliendo quei preziosi attimi infiniti su cui ruotano magicamente il risultato e gli improvvisi scarti del destino. Per questo dosato mix di talento, geometria e classe rimarrà per sempre negli annali di questo sport. Come scrisse Giorgio Tosatti, “Helmut è la fusione perfetta del calcio tedesco e di quello latino: potenza fisica, resistenza atletica, ritmo elevato si sposano con un palleggio raffinato, con l’invenzione geniale, il gusto della recitazione a soggetto, la veronica del torero, l’improvviso acuto del tenore.”