06 Mar Once in a lifetime: Stanley Kubrick
Il 7 marzo 1999 muore a St. Albans, nell’Hertfordshire, a trentacinque chilometri a nord di Londra, Stanley Kubrick, con tutta probabilità il più importante cineasta del secolo scorso. A differenza di molti altri illustri colleghi, il talento di Stanley era figlio di una visione. Il cinema gli aveva, infatti, offerto solo una prima ed accogliente casa, ma lui, in realtà, frequentava un universo creativo ben più ampio e variegato in cui convivevano il design e la scrittura, la filosofia e la psicanalisi, la fotografia e gli effetti scenici, la sceneggiatura e la regia. Stanley era un artista completo, un uomo di cultura e di attitudine che si era costruito sul campo con mezzi propri, tenacia e intelligenza. Anche per questo Kubrick incarnava pienamente lo spirito dei suoi tempi, era il perfetto paradigma del regista pronto a superare qualsiasi ostacolo. Perché il suo cinema rimaneva sempre espressione poetica di un’arte estrema, libera e assolutamente indipendente.
Un cinema abnorme
Tutto nel suo cinema era abnorme: l’impegno stacanovista che profondeva nel lavoro, la poderosa scrittura delle sceneggiature, i temi scomodi che affrontava, le soluzioni organizzative e artistiche, le alchimie circolari della narrazione nonché le brillanti architetture visive con cui ritraeva l’umanità imperfetta a cui le sue pellicole offrivano sempre asilo. Perché il cinema di Kubrick era pura intuizione, un esemplare intreccio di emozione e suggestioni, di stomaco e cervello. Stanley non amava la speculazione che lasciava invece volentieri ai suoi critici. Diffidava dell’uomo, della morale e della diplomazia. Tutte quelle arti mimetiche non facevano per lui. Era schivo e franco sino al limite della spiacevolezza. Stanley amava solo il suo lavoro. Se ne era innamorato al punto da diventarne schiavo. La critica lo acclamava, ma lui sfuggiva regolarmente alle lusinghe della notorietà e del palcoscenico. Trovava tempo solo per sé ed i propri progetti che finivano per monopolizzare un mondo privato e materiale da cui si lasciava facilmente ossessionare. Stanley era un viaggiatore riluttante: ai viaggi sia strumentali che metaforici preferiva sempre la scomodità dei suoi set. Viveva un caotico presente fatto di ossessioni, grandi idee ed intuizioni, su cui cercava ostinatamente di esercitare un controllo pervasivo e assoluto.
Un implacabile genio
Kubrick è stato l’ultimo grande regista di una grande e indimenticata stagione. Spietato e rigoroso con attori e collaboratori, era capace di girare la stessa scena per intere settimane, ripetendola diverse centinaia di volte, senza concedere mai riferimenti, senza indulgere in cenni o spiegazioni, inchiodando davanti alla macchina da presa centinaia di comparse dall’alba al tramonto. Per lui nulla era impossibile. Kubrick ricostruiva con maniacale attenzione i suoi set, sia che si trattassero di astronavi alla deriva nel cosmo sia che fossero invece vecchi ed inquietanti alberghi nascosti tra le nevi delle Montagne Rocciose. Stanley voleva governare ogni elemento. Dettava implacabilmente i tempi di ogni lavorazione sino a che non ne era intimamente soddisfatto. Ecco perché la durata delle riprese dei suoi film era un dettaglio organizzativo del tutto ipotetico che sfuggiva a previsioni e controlli, potendo variare di mesi se non addirittura di anni. Perché Stanley era un efferato perfezionista innamorato delle sue idee ed accanitamente disposto a tutto pur di difenderle dalla mediocrità, dai compromessi o da materiali necessità. Una volta, trovò pure il modo di bloccare sine die, per mesi interi, una scena in esterno, gettando nel più nero sconforto i produttori, in attesa che un sole mattiniero la baciasse con un particolare quanto effimero riflesso di luce.
Opere titaniche
I suoi film erano opere titaniche la cui sola preparazione impegnava centinaia e centinaia di collaboratori. Nel frattempo, Kubrick accumulava serialmente ogni genere di cosa, dai ritagli di giornale ai materiali di scena, dai quaderni di appunti alle fotografie, dai provini ad ogni singola infrastruttura di posa. Per districarsi tra quintali di assortite masserizie stilava accurate mappe delle sue case. Prima di iniziare a riprendere, provava e riprovava ogni cut, girando interi rulli di prova che mandava a sviluppare contemporaneamente in diversi laboratori. Lo stesso negativo veniva stampato da macchine diverse così da permettergli di effettuare un continuo test incrociato sui materiali, sulla cui base decideva, di volta in volta, chi avrebbe infine stampato i giornalieri, tenendo sulla corda anche cinque laboratori per volta. Era metodico, ossessivo ed attento ad ogni particolare. Si occupava di tutto in prima persona, decidendo chi doveva curare le consegne dei rushes o chi, invece, doveva dare da mangiare alla popolosa colonia dei suoi amati gatti. Amava lavorare sempre con le solite persone, quelle che conosceva meglio e di cui si fidava ciecamente. Era anche solito ascoltare i loro pareri, salvo poi fare regolarmente di testa propria.
L’ossessione per la privacy
Ma, su tutto, Stanley era terribilmente geloso della propria libertà. Per tutelare la privacy della sua famiglia era pronto a sacrificare qualsiasi cosa. Non si fidava dei giornalisti, al punto di viaggiare sempre sotto pseudonimo. Abitava case e tenute invisibili e depistava regolarmente stampa e cronisti allestendo set “esca” in diversi teatri di posa. Come tutti i più grandi, amava anche giocare. In tutte le pellicole era, infatti, solito nascondere un fitto tappeto d imessaggi reconditi e scenari alternativi nelle prospettive infinite di lunghi corridoi o nello smisurato orizzonte dei piani sequenza.
Non di questo mondo
La sua tensione creativa rappresentò il cinema nella sua più magniloquente dimensione. Se ne andò improvvisamente nel sonno, nel momento più cruciale e difficile della sua avventura, mentre stava per chiudere la lavorazione di “Eyes Wide Shut”, mentre cominciava a capire quanto sarebbe risultato difficile e doloroso il montaggio finale. Morì di sfinimento e fatica, mentre era febbrilmente impegnato a riscrivere per l’ennesima volta il capitolo finale della sua opera più complessa e ambiziosa. Il vuoto che si è lasciato alle spalle non è più stato colmato. “Odio che mi si chieda di spiegare come “funziona” il film, cosa avevo in mente e così via. Dal momento che si muove su un livello “non-verbale” l’ambiguità è inevitabile. Ma è l’ambiguità di ogni arte, di un bel pezzo musicale o di un dipinto. “Spiegarli” non ha senso, ha solo un superficiale significato “culturale” buono per i critici e gli insegnanti che devono guadagnarsi da vivere.”