02 Mag Once in a lifetime: Luis Suárez
Il 2 maggio 1935 nasce a La Coruña Luis Suárez Miramontes, di professione calciatore e allenatore. Nell’ideale galleria dei numeri dieci più influenti di sempre Luisito si è conquistato una posizione di eccellenza. Merito di un ampio spettro di attitudini e risorse che lo imposero sin dai primissimi anni come un protagonista assoluto del rettangolo verde. Ma Suarez non si accontentò mai di distribuire egregiamente palla e gioco, ammaestrando classe, tecnica ed eleganza. Al pari dei più grandi, possedeva infatti una singolare dote. Luis giocava la palla in un tempo diverso, in netto anticipo rispetto alle squadre avversari che erano costrette ad inseguire arrancando le sue deliziose trovate. Era grazie a quella speciale visione, a quella profonda ispirazione che Suarez inventava il futuro ben prima che questo scaturisse dai suoi piedi. Perché Luis governava la bola al pari di sentimenti e pensieri, coprendo in tempo reale l’intero perimetro di gioco dall’alto di un fitto reticolo di intuizioni geometriche. Perché il mestiere del “Gallego Dorado” non era solo quello di mettere sempre le cose a posto ma anche quello di regalare ai compagni in fuga verso l’area avversaria palloni che chiedevano solo di essere depositati in fondo alla rete.
La magia dell’uomo dei sogni
Veder giocare Luis era un autentico spettacolo, una specie di magia. Non a caso, era diventato l’uomo dei sogni per gli schemi di Herrera che, dopo averlo avuto al Barca, lo aveva fortissimamente voluto con sé nella sua esperienza italiana all’Inter di Moratti padre. I due provetti alchimisti masticavano la stessa arte e si capivano al volo, al semplice battere di ciglia. Suarez divenne così una pedina insostituibile dei moduli chiusi di Helenio. Perché “el arquitecto” non solo faceva girare la squadra, ma metteva ordine e conferiva autorevole tranquillità a uomini e reparti. Luisito era il perno dell’Inter dei grandi successi. Ne era diretto ispiratore del gioco nonchè meccanico metronomo, pronto a cambiare ritmi e registri appena ve n’era necessità. Ma, tra tutte le sue grandi qualità, quella più importante e decisiva era quella di innescare con millimetrica precisione il contropiede, affidando palle impossibili a Jair e al giovane Mazzola. In quel calcio tecnico e decisamente lento, Luisito faceva sempre un gran figurone in mezzo al campo, perché era un giocatore completo, un regista atipico che sapeva correre, contrastare e, quand’era il momento, anche prendersi tutte le responsabilità che gli competevano.
Uomo squadra
Suarez era uno straordinario uomo squadra, un giocatore attorno a cui potevi inventarti una squadra. Così fu, infatti, quando, nella tarda estate del 1961, l’Internazionale lo strappa al Barcelona, nelle cui fila aveva conquistato un “Pallone d’Oro” rubando la scena a Kubala, per la bellezza di 250 milioni di lire, un sacco di “dinero” grazie a cui il club spagnolo ristruttura mezzo Nou Camp ponendo le basi per una longeva avventura. Quando Luis arriva a Milano, primo spagnolo di sempre ad approdare in Italia, i nerazzurri non sono ancora una squadra di vertice. Lo diverranno però nel giro di pochissime stagioni. Luisito vincerà infatti quella scommessa. Tempo due anni e arriveranno infatti i primi trionfi, lo scudetto e un filotto di coppe prestigiose, dalla Coppa dei Campioni a quella Intercontinentale conquistata in una ruvida notte di Buenos Aires a spese del tostissimo Independiente.
La notte del Prater
“El Gallego” è giocatore di carattere, che sa farsi rispettare, che trascina la squadra e scioglie matasse quando è necessario. Grazie a lui e ai suoi perfetti inserimenti, i nerazzurri giocano a memoria e con semplicità. Il loro è un calcio redditizio ed efficace che, in soli tre passaggi, porta ogni volta un uomo davanti al portiere avversario. Sarà quella formula a mettere in difficoltà tutte le più grandi squadre europee, compreso anche il superlativo Real Madrid, giunto ormai al canto del cigno di Puskas e Di Stefano. L’Inter, infatti, umilia e sconfigge nella magica notte del Prater di Vienna l’invincibile armada spagnola strappandogli la Coppa dei Campioni. Narra la leggenda che, nel sottopassaggio che portava al terreno di gioco, Suarez prese da parte un giovane e nervoso Sandro Mazzola che aveva passato gli ultimi cinque minuti a guardare preoccupato il riscaldamento delle stelle madridiste. “Pensi di continuare a guardarli, vuoi andare a chiedergli l’autografo” gli disse, “o vieni in campo con noi a batterli?”. Il resto lo fece la storia. Tagnin annullò la “Saeta Rubia”, Corso, Mazzola e Jair fecero impazzire Santamaria e Zoco e l’Inter salì per la sua prima volta sul tetto d’Europa.
Influente e rispettato
Dopo quella straordinaria avventura ci sarà spazio anche per tre intensi anni a Genova con la maglia blucerchiata della Sampdoria. Sarà lì in riva al mare amico che Luis deciderà di chiudere, tra vecchi e nuovi amici, la carriera agonistica prima di andare a sedersi in panchina ancora per qualche stagione italiana prima di tornare definitivamente in Spagna ad allenare le squadre nazionali conquistando nel 1986 il titolo europeo Under 21. “Quello odierno è un calcio senza identità. Un calcio in cui non basta chiamare esterno di centrocampo un terzino per trasformarlo in ala. Terzino era e terzino resta, così come restano i cross che finiscono dietro la porta.”