31 Mag Once in a lifetime: Jack Dempsey
Il 31 maggio 1895 nasce a Manassa, Colorado, William Harrison Dempsey, pugile per passione e professione. In quegli anni difficili Jack rappresentava la boxe: era il riscatto, la forza e la potenza, l’America e il suo sogno. Prima di salire su un ring a tirare pugni Dempsey ne era stato solo una dolente comparsa, quando ne discese ne era diventato un assoluto protagonista.
La leggenda di “Kid Blackie”
“Kid Blackie” veniva dal profondo west, dal ventre oscuro delle pianure assetate, da un mondo nomade fatto di polvere, miseria, raccolti avari e decimati. Jack appartiene a quell’orizzonte di sudore e pianto in costante lotta con la crisi che lo sta lentamente inghiottendo. Fa il minatore, lo sguattero, il contadino, il cowboy, il bellboy e il fattorino. Gira per tutti gli Stati Uniti a caccia di pane e lavoro. Si adatta ad ogni svolta, ad ogni scherzo del destino, anche a quelli più tosti. Per uno di questi finisce anche a dormire sulle panchine di Central Park. Ma ogni volta trova la forza di ricominciare da capo. Perché Jack ha un sogno. Il giovane Dempsey ha un talento e deve solo imparare a gestirlo. Perché Jack sa tirare, sa dare di boxe, sia a mani nude che con i guantoni, ed è veramente bravo. Ha un pugno potentissimo e uno stile tutto suo. Quella boxe non si è mai vista prima. Agile, dinamica e poderosa. E’ un perfetto equilibrio di stile e potenza. Ha solo bisogno di un pizzico di fiducia, ha solo bisogno di crederci. E Jack, dopo aver compreso quanto dura sa essere l’esistenza se la guardi da una camera spoglia in cui fai compagnia ai topi e alla fame, decide di provarci.
Il “massacratore di Manassa”
Così, in pochissimo tempo, passa dai banconi dei bar malfamati al ring della palestra. Jack Kearns ne comprende le potenzialità e gli schiude le porte del professionismo. Dempsey infila una lunga serie di vittorie, mandando sempre al tappeto gli avversari e scalando il ranking mondiale. Kearns lo prepara per dare l’attacco al titolo mondiale dei pesi massimi e Jack attende solo l’occasione buona che arriva puntuale nel 1919 quando è chiamato a sfidare Jess Willard, “il gigante”. Sulla carta non ha alcuna possibilità di farcela. Willard è pugile esperto, pesa 110 chilogrammi ed è alto più di due metri. Per la stampa lo sovrasterà in tutto e per tutto. Ma Dempsey ha molta più fisicità. E’ aggressivo, non lascia spazio e, soprattutto, quando parte non si ferma. Jack è una specie di micidiale rullo compressore, una macchina in corsa. Utilizza i principi del falling step e del doppio cambio di guardia, controlla e tiene a distanza il suo avversario, gioca di anticipo, sa incassare inarcando le spalle e parando così molti colpi. Jack usa tutto il suo corpo, danza e aggredisce l’avversario, scaricando su di lui in maniera esplosiva il peso del suo corpo con improvvise e devastanti combinazioni di ganci. E poi Jack ha una cosa che Willard sembra avere perso, la cattiveria, quello spirito di fondo che lo ha spinto sino a lì, che non gli dà pace e che gli ricorda ad ogni risveglio chi è e da dove viene. Willard non ha scampo. Nel solo primo round va giù sette volte e si salva solo perché all’ultima caduta suona la campanella. Il match si chiude al terzo round e Willard finisce in ospedale senza due denti e con la mascella spezzata. Nasce così la leggenda di “Kid Blackie, il massacratore di Manassa”.
Il match del secolo
La storia di Jack adesso è in ascesa. Ma Dempsey non si dimostra per niente disponibile con la stampa. E’ spaccone e arrogante, strizza d’occhio a potenti, gangsters e malavitosi. Difende il titolo quattro volte in quattro anni. Su di lui cominciano a girare brutte voci. Qualcuno sussurra che sia un bluff, che abbia mandato al tappeto Willard solo perché aveva nascosto un ferro di cavallo nei guantoni. Come in quel celebre film di Chaplin, come negli effetti speciali di Hollywood. Sulla sua strada gli mettono un campione argentino di origine italiana, Luis Firpo, imponente e possente quanto e più dei suoi sfidanti. L’incontro va in scena il 14 settembre del 1923 e finirà negli annali come l’incontro di boxe più violento di sempre. Per il match del secolo, il pubblico prende possesso del Polo Ground di New York sin dalla sera precedente. Attorno al ring si assiepano centoventimila spettatori che attendono pazienti il primo gong. Si aspettano un atroce spettacolo. Le loro attese non verranno tradite.
Dempsey vs Firpo
Il match dura poco, ma rimarrà indimenticabile. Nella prima ripresa i due pugili vanno al tappeto ben nove volte. Per sette ci finisce lo sfidante Firpo martellato da colpi durissimi. Ogni volta che barcollando l’argentino riguadagna il centro del ring trova Dempsey che lo aspetta per rimandarlo giù. Poi accade l’impensabile. Manca poco alla campanella e l’argentino spinge, con una ventata di orgoglio, Jack alle corde. Parte un destro forte e velenoso che buca clamorosamente la guardia di Dempsey e lo fa volare giù dal ring, direttamente sulle macchine da scrivere dei giornalisti. Jack accusa il colpo e stordito cerca di riguadagnare il quadrato. L’arbitro Gallagher inizia a contare molto lentamente, troppo lentamente, cercando di capire la situazione. Allo scoccare del dieci Jack è di nuovo in piedi oltre le corde, ma, in realtà, di secondi ne sono passati diciassette e l’arbitro pagherà quella indulgente condotta con cinque settimane di sospensione, anche se di tutto questo ai centoventimila di New York non interessa nulla. La seconda ripresa è la replica della prima. Questa volta Dempsey è molto più attento e incalza Firpo con una micidiale sequenza di ganci. L’argentino finisce definitivamente al tappeto cinquantasette secondi dopo l’inizio della seconda ripresa.
Dal ring a Hollywood
Jack Dempsey entra così nella leggenda. Conserverà la corona mondiale dei pesi massimi fino al 1926, quando gli verrà strappata da Gene Tunney, tra le polemiche, le ombre di un presunto avvelenamento e i fantasmi di un complotto ordito ai suoi danni dalla mala per toglierlo dalle scene. Nel frattempo Jack è però diventato un uomo pubblico e uno stimato attore di Hollywood. La sua unione con Estelle Taylor lo impone sui principali palcoscenici di Broadway con “The Big Fight”, un dramma sportivo scritto a sua misura e somiglianza. Il cinema lo reclama. Jack girerà quattordici pellicole per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta. Il sipario scende infine nella sua New York il 31 maggio 1983 all’età di 88 anni, dopo un’intera vita trascorsa a tirare pugni, passando dalla polvere del deserto al salotto buono di registi e produttori e diventando amico degli attori più importanti, di Charlie Chaplin e Rodolfo Valentino. Con lui nasce e muore la grande favola del ring, quella della boxe letteraria del riscatto e della sfida. La sua storia consegnerà infatti agli studios ingredienti straordinari non solo per la retorica sportiva ma anche per le abili mani degli sceneggiatori.