23 Lug Once in a lifetime: Adolfo Baloncieri
Il 23 luglio 1986 muore a Genova Adolfo Baloncieri, di professione calciatore e allenatore. Secondo il sommo Brera, negli anni Venti “al mondo esistevano solo Meazza e pochi altri: fra questi pochi, l’ungherese Giorgio Sarosi, un mediano tedesco a nome Kupfer e il mio caro maestro Baloncieri, il quale somigliava a un nordico schietto.” Adolfo fu uno dei più grandi “interni” della storia della pedata italica. Brera lo aveva compreso perché la sorte, in giovane età, glielo aveva fatto incontrare su un terreno di gioco, e, tra le zolle fangose di un’Arena milanese che poi fatalmente prenderà il suo nome, aveva imparato a subirne il fascino e la grandezza. Ma, oltre all’autorevole letteratura Breriana, è unanime opinione della critica che Adolfo, in un’ideale classifica dei più grandi di sempre del calcio mondiale, meriti un piazzamento apicale.
Adolfo da Castelceriolo
Adolfo veniva da Castelceriolo, da quella terra di Alessandria che ha sfornato talenti a ripetizione, da Banchero a Ferrari passando per il “Golden Boy” Rivera. In realtà, nelle vene dei Baloncieri scorre, però, sangue torinese, perchè gli avi si erano guadagnati il pane ammaestrando la fertile terra attorno a Caselle, dove avevano cresciuto famiglia in quella lingua di campagna che abbraccia maestose montagne. Come molti illustri figli di Piemonte, la famiglia Baloncieri aveva però cercato strada e fortuna altrove, oltremare, in Sudamerica, finendo per vivere un buon decennio a Rosario in Argentina. Il giovane Adolfo il calcio lo aveva conosciuto lì e aveva preso a frequentarlo con regolarità all’affacciarsi dei suoi primi nove anni. Con la palla ai piedi era un piccolo e promettente gaucho che superava per talento e bravura tutti i compagni di classe. Fosse rimasto a giocare in riva al Rio Paranà chissà quale maglia avrebbe vestito, quella del Central o del Newell’s Old Boys, come fecero molti altri illustri migranti italici. Ma la storia aveva in serbo altre divise e altri colori.
La leggenda di “Balon”
Il rientro in patria non cambia però il suo destino. Adolfo viene immediatamente preso dalle giovanili dell’Alessandria e catapultato, a soli 17 anni, in prima squadra, dove esordisce qualche mese prima che le Dolomiti si trasformino in un tragico teatro di battaglia, in una lunga e dolorosa linea del fronte. La Grande Guerra gli ruba gli anni migliori e lo manda a combattere sin sotto le montagne, a puntare gli obici dell’artiglieria contro le cime presidiate dai nemici. Al rientro “Balon” diventa subito un assoluto protagonista. Mezzala di limpidissimo stile e nevrile eleganza, Baloncieri fa fare il salto di qualità anche alla Nazionale maggiore. Grazie al suo senso della manovra, all’intuito e alla rapidità di tiro, gli azzurri diventano una squadra vera e si tolgono le prime importanti soddisfazioni, conquistando il bronzo olimpico ai Giochi di Amsterdam del 1928 e, due anni dopo, la Coppa Internazionale, davanti ad Austria e Ungheria. Adolfo matura velocemente e migliora stagione dopo stagione. Sa fare bene tutto, ha discreta presenza tattica e, soprattutto, risulta del tutto incontenibile sotto porta. Ma, su tante altre, Baloncieri possiede una dote naturale, un magico ed elegante tocco con cui battezza ogni repentino cambio di gioco, ogni manovra offensiva, ogni arioso schema d’attacco. Tiene la nota, chiama a raccolta, suggerisce traiettorie, macina ritmo e fantasia.
Il “trio delle meraviglie”
Baloncieri rimane a mettere ordine nel centrocampo alessandrino sino alla metà del decennio successivo. Poi se ne va a giocare a Torino in compagnia di Libonatti e Janni. Lì stanno accadendo cose importanti perché la società, stanca di prendere sberle dai cugini juventini, getta nuove fondamenta e radici. L’anno successivo il conte Marone Cinzano fa, infatti, le cose in grande: inaugura il nuovo stadio Filadelfia e acquista il portiere Bosia e l’attaccante Rossetti, che va così a completare, con Adolfo e Julio, il “trio delle meraviglie”. Il Toro strapazza la concorrenza e vince il titolo, anche se poi gli verrà ritirato per una fumosa vicenda di corruzione sotto cui, in realtà, si celavano intricate questioni contrattuali. Adolfo si consacra come uno dei più importanti “interni” italiani, uno dei più prolifici, perché, in quel calcio di mezzo, con tre punte schierate a schiacciare le difese, non era solo il centrattacco ad andare in gol. A Torino “Balon” rimane sette stagioni in cui scende in campo centonovantadue volte segnando la ragguardevole cifra di novantasette marcature. Vince un altro titolo, diventa una bandiera granata e poi si accomoda in panchina a urlare istruzioni ai giocatori.
“Il più classico prodotto del calcio italiano”
Da allenatore ha estro e idee innovative. Gira la penisola in cerca di giocatori, discute di cartellini e contratti e svezza molte formazioni raccontando ai giovani di talento l’amore per la palla e la sua rinomata fluidità di gioco. Si toglie pure qualche bella soddisfazione con il Liguria, la Sampdoria e il Milan, ma un’altra tragica e bastarda guerra gli scippa vigliaccamente la forza e lucidità di anni importanti. Poi decide che è arrivato il momento di fermare le macchine e parcheggia tra la nebbia dei ricordi, qualche amara ombra e antiche recriminazioni. Scompare nel luglio di trent’anni fa per le complicazioni di una broncopolmonite, lasciandosi alle spalle applausi e vittorie ma anche il dolore per la perdita del figlio maschio, tante ore piccole fatte giocando a carte, il baschetto nero sotto cui celava pudicamente la calvizie e una certa insofferenza per la modernità. Come scrisse affettuosamente Brera, Adolfo “giocava all’antica, da un’area all’altra, però con mirabile misura. Fu il più classico prodotto del calcio italiano negli anni venti ed uno dei più classici di sempre”.