11 Set Once in a lifetime: Ronnie Peterson
Alle prime luce dell’alba di lunedì 11 settembre 1978 muore all’Ospedale di Niguarda, in conseguenza dei gravi traumi riportati nell’incidente alla partenza del Gran Premio d’Italia a Monza, Ronnie Bengt Peterson, pilota per professione ma, anche e soprattutto, per viscerale vocazione. Ronnie era una persona veramente speciale, sia in pista che fuori. Possedeva la serena determinazione dei più grandi, di Clark, Fangio o Ascari. Ronnie viveva per correre, perché quello era l’unico modo che conosceva per sentirsi parte del tutto. Per lui l’esistenza era solo una successione di sfide e competizioni, di gare e trofei, il tentativo di venire a patti con le forze della gravità e della fisica. Ronnie correva per tenere a bada tutto questo: le lusinghe del tempo, gli inganni del passato e gli scherzi della sorte. Se poi riusciva a tenersi dietro anche gli avversari tanto meglio.
Un modo per tenere a bada la vita.
Peterson era un pilota di grande fisicità. Guidava con i piedi e le mani, la schiena e le braccia. A tutto questo, però, aggiungeva qualcosa di straordinariamente unico, qualcosa che non si trova sui manuali e che spesso stenta ad arrivare anche con il tempo, il mestiere o l’esperienza. Perché quando si calava nello stretto abitacolo dei suoi bolidi, Ronnie, oltre che ad un piccolo orso portafortuna, si affidava al suo istinto. Per questo riusciva sempre ad anticipare di qualche centimetro l’ingresso in curva, così da tenere giù il pedale dell’acceleratore, sfidando gli incerti della pista, gli angoli ciechi delle varianti e la prospettiva dell’incombente rettilineo. Era grazie a quello spunto che Ronnie metteva metri di asfalto tra sé e gli inseguitori. Era così che si preparava, ben prima degli avversari, a correggere lo sterzo per cercare di prendere la linea migliore, tracciandola con l’immaginazione ancora prima di averla scorta, lasciando gomma e polvere alle monoposto più titolate. Quel suo modo di guidare così appassionato, radicale ed estremo aveva commosso sino alle lacrime. Perché la gente aveva capito subito che quel pilota biondo non conosceva mediazioni o calcolo. Viveva e guidava a tutta velocità, in perenne derapata. Ronnie era tutto lo spettacolo e l’emozione delle curve. Come Fangio, e forse anche più del fuoriclasse argentino, era lì che andava a strappare centesimi pesanti agli avversari. Non era una questione di potenza o di motori, né tanto meno il vantaggio di un determinato assetto, che anzi finì spesso per costituirme il principale tallone d’Achille. Era solo il suo modo di stare in pista come nella vita. Ronnie non collaudava bolidi, non studiava la temperatura degli pneumatici, non perdeva ore con i tecnici a discutere della tenuta di molle e ammortizzatori. Lui stringeva tra le mani un volante per cercare di tenere sull’asfalto la monoposto, per guadagnare metri, speranze e futuro, per arrivare prima di tutti gli altri e dimostrare a se stesso che era una vita buona da vivere fino in fondo.
Un automobilismo antico ed eroico.
Peterson apparteneva a un mondo precedente. Il suo era un automobilismo dei pionieri, antico ed eroico. Fosse nato venti anni prima avrebbe stracciato tutti, anche i più grandi. Ronnie portava le monoposto ai loro limiti ed anche oltre. Era nato per fare quello e lo sapeva fare maledettamente bene. La vita gli aveva insegnato a tirare fuori il meglio da quello che gli capitava per le mani. Aveva imparato a guidare monoposto impossibili, aveva capito fin dove litigare con coperture prossime alla bollitura, aveva scoperto il trucco per sfruttare sino in fondo i cavalli di propulsori spompati e prossimi all’oblio. Le sue migliori e più esaltanti imprese erano arrivate al volante della Lotus 72. In quei primi anni Settanta con la scuderia di Colin Chapman aveva anche sfiorato il titolo. Dopo un periodo difficile, nel 1976 con la March era tornato a salire i gradini più alti del podio, nonostante la 761 non fosse certo la più competitiva del lotto. Ciò nonostante si tenne spesso dietro tutte le monoposto più importanti, dalla Ferrari di Lauda alla McLaren di Hunt. La stagione successiva aveva dovuto fare i conti con la sfortuna e un’infinita teoria di guasti, nell’inutile tentativo di domare il fantasmagorico sogno a sei ruote di Ken Tyrrell. In tutta la sua lunga carriera, Peterson aveva sofferto, ma ogni volta che la meccanica e i cavalli l’avevano assistito era tornato a fare la lepre. Perché solo lui sapeva come piegare le curve, come scivolare sull’asfalto o volare sull’acqua. Alla fine del 1977 gli era tornata la voglia di stringere tra le mani un volante finalmente all’altezza delle sue capacità. Si era guardato attorno, ed era tornato da Chapman.
Quella mattina di settembre.
Ricordo perfettamente quella mattina di settembre. Ricordo, come fosse ieri, lo sguardo sconcertato di mio padre, la radio che dava la notizia, il silenzio, lo stupore e il sincero sconforto. Per l’insensata tragedia di quella prematura scomparsa, per il vuoto che si sarebbe lasciato in scia, per tutto quello che quel mondo stava fatalmente diventando. Con un pizzico di buona sorte e mezzi adeguati, Ronnie si sarebbe certamente laureato campione del mondo, ma il destino decise altrimenti. Per anni aveva invano inseguito quel sogno, ma la foga, il nervosismo e la precipitazione lo avevano indotto a qualche errore di troppo. Quell’ultima strana stagione poteva finalmente essere quella buona, perché la Lotus 79 era un davvero una monoposto innovativa e formidabile. Ma lui tenne fede alla parola data. Era la seconda guida e avrebbe rispettato i patti, perché in quel mondo i contratti ancora si firmavano così, con una stretta di mano e poco più. A vincere fu così il compagno di squadra, Mario Andretti, a cui lui rimase sempre in scia, sino al tragico e triste esito di un incidente assurdo che gli costò la vita. Anche per questo, per una sorte avversa e il peso di una stretta di mano, per un buona fetta della mia generazione, Ronnie rimarrà comunque e per sempre il pilota più veloce.