23 Giu Diego Alverà racconta. Pietro Mennea: “ogni corsa è un viaggio”.
Il suo cognome è da tempo entrato nella leggenda dello sport ma, ai suoi anni, Pietro era solo uno dei tanti ragazzi del Sud che erano cresciuti inseguendo un sogno. Mai come in questo caso quel sogno fu davvero il frutto di tenacia e determinazione. Mennea imparò rapidamente a fare tutto da solo. Così imparò a trovare i passi e i tempi, così inventò dal nulla l’angolo giusto per uscire dalla curva della pista e da quel futuro grigio che lo stava attendendo. Mennea non aveva solo una grande passione per l’atletica e la corsa. Pietro coltivava piuttosto una personale visione del mondo, una geometrica cosmogonia fatta di regole e prove, gare e cronometri. Perché Mennea era abituato a prendere la vita alla sua maniera, perché Mennea si era allenato ad arrivare sempre prima degli altri.
Correre per vincere
Pietro si era reso conto sin da giovanissimo che la vita di sconti non ne fa. Per questo aveva imparato a non regalare mai niente. Mennea correva per vincere, per il gusto della sfida, per arrivare primo. Quando, poi, riusciva a tenersi gli altri alle spalle, mentre tagliava il traguardo di slancio e rabbia, alzava alto il dito per chiederne conferma al cielo, per rivendicare quel successo e urlarlo a se stesso e al mondo che si era tenuto in scia. Quello era il modo che si era scelto per sentirsi parte del tutto. Quello era il modo per cercare il suo posto in campo.
Ombre e fantasmi
Pietro aveva cominciato a correre molto prima di farlo sul tartan delle piste d’atletica. Correva sempre, per gioco, per andare a prendere il latte o per sfidare le automobili, per scherzo o scommessa. Pietro correva perché non poteva fare altrimenti, perché solo così teneva lontane ombre e fantasmi. Correva per il gusto di farlo e per essere il più veloce. Correva contro tutto o tutti, gli avversari e gli scettici, l’ipocrisia e la stupidità. Correva per vincere. Quando lo fai per sincero agonismo non è mai per arrivare secondo. Perché, se affidi ai muscoli delle gambe tutto quello che sei, per te alla fine del rettilineo esiste solo la vittoria.
Un lottatore
Mennea era un lottatore. Chissà quale disciplina avrebbe scelto se madre natura non lo avesse dotato di un fisico così secco e nevrile, di polmoni capienti e muscoli di acciaio. Pietro non mollava mai, nemmeno quando affrontava la corsia con lo sfavore del pronostico, quando doveva farsi spazio tra granitici colossi americani e frecce russe figlie del vento. Lui, il piccolo, esile italiano di Barletta, che faceva mangiare la polvere a mezzo mondo, usciva dei blocchi veloce ma esitante, sembrava quasi che faticasse a trovare il ritmo giusto e il passo necessario a coordinare quella perfetta sincronia di leve, movimenti e spinte. Poi, superato lo choc di quel rabbioso scatto, inesorabile, cominciava a rinvenire, a recuperare l’orizzonte mangiando centimetri su centimetri agli avversari, uscendo dalla curva soffiandogli già sul collo, affiancandoli e sfilandoli con una prodigiosa e furente accelerazione. Gli ultimi infiniti cinquanta metri, poi, erano pura leggenda, passione e adrenalina, proprio come la voce del cronista che masticava fiato e affanno in una parossistica giostra di eccitazione quasi a spingerlo sulla linea del traguardo, verso quell’ultimo magico balzo di reni, verso quel tuffo finale e decisivo che toglieva il respiro.
Una bellissima favola
Mennea era una bellissima favola, buona per raccontare il mondo ai più piccini ma anche per dare una prospettiva ideale ai più grandi, fantastica per misurare l’agonismo e la sportività, lo spirito e l’impegno, la determinazione e la cattiveria. Le sue sfide contro il tempo e il vento, il cronometro e l’altura, contro la maglietta rossa di Valery Borzov e quelle blu dei velocisti statunitensi, hanno fatto la storia, inchiodando per ore un’intera nazione davanti all’incerto e sgranato bianco e nero televisivo. Perché di tutte le più avventate discipline umane, sia che si materializzi sulle ripide discese di ghiaccio di una montagna o sul liscio rettilineo di una corsia, è sempre la velocità a rapire il cuore di tutti, ad abbattere confini e limiti, sconfiggendo, anche solo per pochi istanti, leggi naturali mai del tutto digerite.
Un numero uno anche quando arrivava secondo
Pietro è stato tutto questo. Ha continuato ad esserlo anche quando ha deciso di smettere di correre, prendendo una laurea, facendo politica, inseguendo sempre la sua idea del mondo e offrendo un contributo originale e sincero da lasciare in eredità agli altri. Perché Pietro non ha mai conosciuto compromessi o mezze misure, nell’impegno come nella fatica e nella velocità. Era il primo a scendere in pista e l’ultimo ad andarsene. Era quello che diceva sempre quello che pensava, a scanso anche di innescare equivoci o qualche mal di pancia, senza paura di polemiche e discussioni. Anche in questo Mennea era davvero unico, un vero numero uno anche quando arrivava secondo.
“Ogni corsa è un viaggio”
“Ero come un viaggiatore che stava per partire. Ogni corsa è un viaggio. Mi chiedevo: ho preso tutto? Ero alla ricerca di un tempo, troppe volte perduto. Pensai fosse la volta buona. Remai un po’ in curva, controllai la sbandata all’entrata del rettilineo, non smisi di spingere, stavo andando a trentasei chilometri all’ora con le mie gambe. Corsi i primi cento in 10″ 34 e i secondi in 9″ 38. Arrivai con sei metri di vantaggio. Il pubblico urlò, ma io non ero sicuro. Non c’erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L’unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre, forse avevano sbagliato anno? Eravamo nel ’79 non nel ’72, mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione, non riuscivo più a respirare.”